Pagina:Italia. Orazione detta la sera del 13 marzo del 1917 al Teatro Adriano in Roma.djvu/8


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Lessi rapidamente e scorsi subito, con emozione ignorata prima, il numero che segnava l’anno della mia nascita.

Un uomo accanto a me, ignoto e povero nell’aspetto, tutto agitato mi disse: — Vai sotto anche tu?

— Sì, anch’io — risposi.

Ed egli: — Andiamo, andiamo. — E mi trascinava con lieve violenza.

Ma io non lo seguii poi che una domanda più vasta riempiva il mio cuore:

— Chi è costui? Non è egli finalmente il popolo nostro, che interviene? Quale destino antico, eterno si compie in quella sua risoluta fermezza serena?

Si smarrì fra la gente che ripeteva con ansia, con la gola tesa, col petto gonfio:

— Ci sei? — Ci sono, ci sono! — Anch’io! — Anche tu?!...

A me pareva nuotare in un vortice.

Quanti giungevano, quanti accorrevano erano tutti chiamati, e con le loro mosse inaspettate pareva che già combattessero, qualcuno pareva già cadere sorridendo.

Accorrevano: la fiumana delle parole si riversava nei campi dell’azione. Era scritto! Correvano: imparavano il comandamento e si raggruppavano poi, fra loro sconosciuti, ma già fratelli: e quasi nessuno conosceva l’arte delle armi. Dolcissimo era essere ignorato fra loro e sentirsi dare del tu.

Questo accadeva quella notte in Roma, in Roma... Ma Roma dov’era? Nella sua maestà eterna, che diceva?

Io non potei quella notte concedere al mio spi-