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capitolo ventesimottavo. 177

vamo stati col meritato disprezzo ributtati, e che per altro ogni nostra domanda doveva d’allora innanzi rivolgersi al procuratore e non a lui. Ma non pertanto avvertì, che avendo egli in buon conto la prudenza delle due fanciulle, quelle sarebbero state le più gradite interceditrici.

“Siati argomento questo una volta,” diss’io al compagno “della ribalderia del mio oppressore. Vedilo motteggevole insieme e crudele. Ma, mi malmeni egli pure a sua posta. Libero sarò io quanto prima a dispetto delle sue catene; perocchè mi vo accostando ad una abitazione che più luminosa mi appare quanto più me le avvicino. Questa speranza allevia i miei patimenti; e quantunque a me dolga di lasciare dopo di me una famiglia d’orfanelli priva di soccorso, pure non saranno que’ miseri, io spero, dimenticati da tutti. Avravvi forse un amico che per amore del loro povero padre vorrà assisterli; e forse alcuni per amore del padre universale è celeste porgeranno caritatevolmente aiuto a que’ malarrivati.”

In così dire, ecco entrare mia moglie che io non ancora aveva quel giorno veduta, tutta terrore gli sguardi e l’andamento, e sforzantesi di parlare, ma parlar non potendo. “E perchè, amor mio,” le dissi, “vuoi tu raddoppiare col tuo il cordoglio mio? Se niuna scusa vale a commuovere il severo nostro padrone, s’egli mi ha condannato a morire in questa stanza lugubre, se noi abbiamo perduta una figliuola amatissima, avrai conforto non pertanto dall’amorevolezza degli altri tuoi fanciulli quand’io più non sarò.”

“Ahi sì, perduta un’amatissima figliuola,” gridò ella, “abbiam noi! La cara mia Sofia se n’è ita, strappata dal nostro seno, rapita da scellerati assassini.”

“Come è ciò?” esclamò il mio compagno: “madamigella Sofia da scherani rapita?” Ella non rispondeva che con un affissar d’occhi e un gran fiume di pianto. Ma la sposa d’un prigioniero venuta seco lei più distintamente ci narrò il caso. Andava quella donna in compagnia di