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capitolo ventesimosettimo. 175

non era da credere che dovessero trovare fortuna presso uno zio amantissimo; e questa speranza mia, insieme colle precedenti tutte, svaniva. Quantunque però i disagi della prigionia e la malsana aria di quel luogo cominciassero a prostrare le mie forze, e andasse sempre più peggiorando la spalla scottata, la mente tuttavia dignitosa sostenevasi. Sedevano i miei figliuoli intorno a me sdraiato su poca paglia; ed ora a vicenda leggevano, ora udivano attenti le mie ammonizioni e lagrimavano. Ma la salute d’Olivia illanguidiva più assai della mia; e di ciò il cuore mi scoppiava più crudelmente ogn’istante che a me si recavano novelle di lei. La quinta mattina dopo la lettera da me inviata al signor Guglielmo Thornhill, fui spaventato dall’avviso che la misera aveva perduta la favella; e questa fu la prima volta che la prigione m’increscesse davvero. Si struggeva l’anima mia del desiderio d’uscire dall’oscuro carcere, volare al letto della cara figliuola, confortarla, alleggerire con soavi parole gli affanni di lei, incamminarla vêr Dio e raccoglierne l’ultimo sospiro. Corre un altro e mi narra ch’ell’è moribonda. Ahi sciagurato me, privo della meschina consolazione di poter piangere sul capo della fanciulla! Venne finalmente il mio compagno di prigione coll’estremo annunzio: “Abbi pazienza, ella spirò.”

La mattina appresso tornò Jenkinson e trovommi attorniato da’ miei bambini, sola compagnia a me rimasta, li quali, tutte le innocenti lor cure ponevano in opera per consolarmi.

“E non è ora fatta un angelo la sorella?” diceva il maggiore; “di che dunque, o padre, ti affliggi? Vorrei pur io fuor di questo orrendo luogo esser un angelo insieme al mio genitore.” — “Sì davvero,” esclamò il più piccino, “il cielo ov’ora è la Livia, è un luogo assai più bello di questo, e vi son solamente buone genti; ma qui non veggonsi che cattivi.”

Il signor Jenkinson interruppe que’ loro semplici dis-