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IL BUON CUORE 251


Nè ciò bastava ancora: un altro danno gravissimo ebbero a soffrire le Catacombe da parte di coloro che, pur essendo animati dalle migliori intenzioni, tuttavia per amore dell’arte, le venivano distruggèndo. Alla fine del secolo XVIII il francese Sèrona d’Agincourt, il quale si accingeva a scrivere la storia dell’arte Cristiana, domandò ed ottenne il permesso di staccare dai cimiteri sotterranei parecchie pitture murali; e il suo esempio fu seguito da numerosi imitatori i quali asportarono una quantità di affreschi e altri ne sciuparono miseramente. Nel secolo XIX sorsero infine degli studiosi che si dimostrarono degni di raccogliere l’eredità del Bosio. Verso il 183o Raoul Rochette consacrò interessanti studi alle pitture cristiane primitive, e dal 1841 in poi il padre Marchi, conservatore dei cimiteri Sacri, si fece campione entusiasta e appassionato delle Catacombe e ne riprese la metodica esplorazione. A lui si devono gli scavi minuziosi nelle Catacombe di Sant’Agnese; fu lui che identificò la tomba di San Giacinto: egli dimostrò che le Catacombe non erano, come alcuni avevano sostenuto, delle antiche case di sabbia, utilizzate poi dai cristiani, bensì delle gallerie da essi espressamente scavate per seppellirvi i loro morti. Il padre Marchi aveva divisato di scrivere un trattato intorno ai più antichi monumenti dell’arte cristiana a Roma; ma di quest’opera grandiosa egli non pubblicò che una parte nel 1844, e precisamente lo studio intorno all’architettura della Roma Sotterranea Cristiana, che è un’analisi seria e sistematica delle Catacombe e dei’vari tipi di costruzioni che vi si incontrano, dei diversi aspetti che esse presentano. Gli avvenimenti politici che turbarono Roma nel 1848 e 49 aggiungendosi al timore che egli’ aveva di non trovarsi all’altezza del grave compito da lui assunto, lo fecero rinunziare a proseguire l’impresa, ed egli si rassegnò al silenzio: ma prima aveva scelto il proprio successore nella persona di un allie-vo che non doveva tardar molto a superare il maestro. Ciò che distingue Giambattista De Rossi da tutti i suoi predecessori, compreso il Bosio, e ciò che lo rende a tutti incontestabilmente superiore, è la precisione del suo metodo, il quale rappresenta il trionfo della critica scientifica. L’opera compiuta dal De Rossi fu insigne e veramente grandiosa: la scoperta di dieci cimiteri nuovi e di una dozzina di tombe di martiri, gli scavi sistematici eseguiti in tutti gli altri cimiteri già conosciUti, la pubblicazione di tre volumi in folio della «Roma Sotterranea )) di due volumi contenenti iscrizioni cristiane di Roma, l’organizzazione del museo crstiano del Laterano, la pubblicazione durata trenta anni del «Bullettino di archeologia Cristiana» e una quantità di lavori particolari sull’epigrafia profana, sulla topografia romana, ecc. ecc. La fortuna che il De Rossi ebbe nei suoi scavi fu dovuta semplicemente a questo: che egli non procedette mai a caso, e non intraprendeva mai una ricerca senza sapere prima con precisione che cosa egli voleva trovare.e Come e dove doveva trovarla. Le più interessanti fra le scoperte di questo genere anteriori al De Rossi, erano state puramente accidentali: egli invece fece in modo da non lasciare nulla al caso, e appunto per questo il caso lo favorì sempre. Seguendo l’esempio del Bosio, ma più rigorosa

mene ancora, egli si diede a studiare le Lala:oinbe facendo base dei suoi lavori l’esame topografico e geologico del suolo e del sotto suolo della campagna romana; e in queste ricerche egli ricorse alla collaborazione di suo fratello Michele, un eminente giurista. che per devozione fraterna si fece geologo e divent’uno dei più dotti fra gli scienziati italiani, e inventò una macchina ingegnosissima per rilevare automaticamente il piano delle gallerie sotterranee. Il De Rossi era persuaso che lo studio delle fonti letterarie ’dovesse dirigere l’esplorazione topografica. A tale scopo egli mette a dísposízione una preziosa miniera d’informazioni che i suoi predecessori avevano a torto trascurate, e cioè gli Itinerari pubblicati nel VII e nell’VIII secolo per uso dei pellegrini che si recavano a Roma, itinerari contenenti l’enumerazione dei cimiteri, posti su ciascuna delle grandi strade della Campagna romana, con l’indicazione delle distanze che separano questi Cimiteri dalla Città,’ oppure l’uno dall’altro. Il De Rossi capì subito tutta l’importanza di queste guide, e sopratutto delle indicazioni che esse fornivano intorno alle tombe che di preferenza erano visitate dai pellegrini in ciascun cimi!tero, ossia intorno alle tombe dei martiri più illustri. Dal 1593 al 1850 non si erano trovate che tre di queste tombe; il De Rossi pensò che si doveva scoprirne molte di più e vi riuscì infatti limitando ingegnosamente l’esplorazione e il lavoro di scavo proprio in quei punti che erano stati trascurati dai suoi predecessori, perchè in parte ostruiti da frane: e quali provenivano dal crollo delle grandi.,scalinate e di lucernari che erano stati eseguiti nel IV secolo sotto il papa S. Damaso, appunto per facilitare ai fedeli l’accesso alle tombe dei martiri. Gli sforzi del De Rossi furono coronati da pieno successo, e in pochi anni egli mise alla luce dodici di queste tombe storiche, la cui posizione corrispondeva perfettamente alle indicazioni contenute negli itinerari medioevali. Il De Rossi tenne pure molto conto delle epigrafi lasciate dai pellegrini, esaminando le frasi e i nomi tracciate da essi sulle parti delle gallerie sotterranee, osservando come quelle iscrizioni si moltiplicassero in vicinanza delle cripte dei martiri, alle quali la folla accorreva rendendole oggetto di speciale venerazione: tenne pure gran conto delle iscrizioni metriche, di: quegli elogi latini che il papa San Damaso aveva fatto porre sulle principali tombe dei martiri e delle quali egli raccolse i frammenti. Per più di cinquan’anni il De Rossi scrutò i sotterranei dei dintorni di Roma: grazie a lui furono esplorate delle gallerie coprenti una superficie totale di 246 ettari e rappresentanti ima lunghezza complessiva di 876 km. Fra coloro che non prendevano u 1 serio le ricerche e sopratutto le ipotesi del De Rossi, vi fu da principio anche il papa Pio IX, ma per convincerlo della serietà e dell’immensa importanza dell’opera sua, bastò che l’insigne archeologo lo conducesse nel 1852 nella Cripta di S. Callisto, dove erano stati seppelliti i pontefici romani del III secolo, e gli mostrasse le loro tombe, rimesse in luce; circondate da iscrizioni. L’opera incominciata dal De Rossi viene degnamente continuata da una Commissione di archeologia Sacra.