Pagina:Il buon cuore - Anno XIV, n. 51 - 25 dicembre 1915.pdf/6


IL BUON CUORE 358


Un numero

Il municipio di Milano fa le cose per bene. Ormai andiamo tutti in carrozza, grandi e piccoli, ricchi e poveri, vivi e... morti. Le salme viaggiano in tramvia elettrica: i parenti dei defunti, per quanto miserabili, altrettanto è la rigida decorosità dei funebri convogli, del personale in nera uniforme, perfino la velocità silente della trazione che sembra generata da un soffio arcano, tutto è burocraticamente e inappuntabilmente lugubre, degno di una capitale. L’altra mattina, il tram elettrico della morte era affollato e trasportava quattro bare, delle quali una cassettina piccola, da bimbo. Il vento era così forte che i lembi delle povere coltri logore dall’uso svolazzavano tratto tratto fin sulla barba del frate cappuccino che, la testa china, le mani sprofondate nelle maniche. i piedi nudi negli zoccoli, pareva tramutato in statua. Nel carrozzone precedente, le famiglie dei parenti, dopo l’impacciatura istintiva dei primi silenzi, avevan rotto il ghiaccio, si erano affratellate subito con la facilità dei poveri che hanno comuni due soli temi: la miseria e il lavoro. — «Un frate?.. Chi ha pagato un frate? Ci voglion dieci lire per averlo.... — «Io no! Io nemmeno... Nessuno lo aveva fatto venire. Sulla piattaforma, cinque bambine ammantate nei veli bianchi rigidi d’insaldatura, cinguettavano come passere: di tanto in tanto una risata giovanile scattava come il trillo di una campanellina d’argento. La madre del bimbo morto era la sola che piangesse. — «Dove è andato adesso l’Angioleu? — chiese a un tratto la più piccola delle bimbe, che teneva religiosamente chiuso nel pugno un crisantemo rovinato dalla brina. «In quel posto da dove è venuto, sciocca! — le rispose la sorellina maggiore. «Che luogo è)? «Il Paradiso. «No: il Limbo! — intervenne a dire un’altra. «Me lo ha insegnato la mia maestra. «Non è vero, bugiardona.... - «Bugiardona sarai tu! Nel tram della morte tutti sorridono; di là, dietro il cristallo, sventola e batte sempre più forte un lembo nero, e un mormorio di preghiera si perde nella barba del cappuccino, nel respiro ghiacciato del vento.

La terra è: tanto dura che i fossaiuoli si sono ben meritata la mancia. Le quattro bare, seguite dal corteo dei dolenti, furono scavate in fondo, in fondo, in un campo nuovo che, quanto prima sarà vecchio, poichè è spaventosa la moria di questa Milano che tanto palpita di vita! E per giungervi, grandi e piccoli hanno dovuto

percorrere una lunga via attraverso croci, lapidi e rialzi di terreno duro come lava. Quando le due casse lunghe e strette furono calate nelle buche fonde, quando la piccola cassa leggiera come l’ala di un uccello fu scomparsa nel grembo dell’altra Madre che l’aspettava, allora per la prima volta s’accorsero che nessuno, nessuno, accompagnava la quarta cassa. Il cappuccino solo, stava immobile accanto al tumulo recente. Col braccio teso benedì due volte. Chi à-, padre? — fece la più curiosa delle dorne. Ma il frate non rispose e s’allontanò frettoloso. «Chi è? Chi sarà? Neanche un cane, per lui.... Uno degli affossatori, interpellato, si strinse nelle spalle come il frate, continuando a lanciare nella buca, con ritmica regolarità, una badilata di terra sopra l’altra. L’altro affossatore (questione di temperamento!) fu esauriente e scultorio. Appoggiato al badile con ambe le braccia, diede uno sguardo circolare ai curiosi che l’attorniavano. «E’ uno di S. Vittore — disse deponendo senza saperlo un fiore di pietà sul feretro solitario, perchè non aveva detto, del Cellulare. «Ma non c’era scritto neanche un nome sulla cassa? No: un numero: sarà stato un forest. «Ah! E quella gente rozza, che aveva seguito il proprio feretro ciarlando e sorridendo, quella gente compianse il morto sconosciuto, il morto colpevole, con sincero slancio di pietà. Poi una delle bimbe, la più piccola, ispirata chi sa da quale misteriosa voce lontana di anima ignota, che quel morto poteva aver amato, aggiunse un altro fiore a quello dell’affossatore: il crisantemo rovinato dalla brina: il fiore, forse, del perdono. FULVIA.

"FIN„ Lo conoscete? Penso di sì, tanto la sua popolarità è pronunciata. Indipendente e sottomesso, docile e capriccioso, timido e temerario, sobrio e ghiottone, pigro ed intraprendente. ha tutte le qualità e tutti i difetti della sua razza, nella spiccata tendenza d’essere solo a dominare nell’ambiente di cui seppe assicurarsi l’assoluta sovranità. Bellissimo nella perfetta eleganza delle forme, nella testolina dalle, brevi linee, nell’occhio lampeggiante d’intelligenza, desta l’ammirazione e la simpatia, imponendosi all’attenzione con tutte le risorse della prepotenza, come con tutti i ritrovati dell’amabilità. Chi non lo conosce? La sua voce eccheggia da un capo all’altro della via, quando dall’alto del suo osservatorio pensa intervenire arbitro fra contese canine, o giudice d’agglomeramenti pericolosi; quando crede di