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290 IL BUON CUORE


completarono i capitelli delle colonne, che ebbero smantellate le volute e le foglie. Cosicchè oggi, nel visitarla, rimaniamo offesi da quella banale modernità, che ne ha guastato la semplice bella lineè basilicale, togliendole quel senso di mistica suggestione, che emanava dalle muraglie rese venerande dal tempo; e con un certo rimpianto, misto a venerazione, osserviamo qua e là le impronte delle età passate. Della basilica primitiva, le colonne di greco, pulvini ed avanzi di muri e di archi e frammenti di altare, e i sarcofagi riccamente scolpiti, uno dei quali serve di altare e di tomba al vescovo S. Liberio. Poi la cripta, quasi sempre invasa dall’acqua, dove furono dissepolti bei pezzi di mosaico e monili bizantini di oro con perle, adesso custoditi nel museo. Poi la mezza figura di santa, residuo delle pitture giottesche;,e. due lapidi funerarie levate al pavimento e incastrate nel muro ai fianchi della porta maggiore: l’una con l’effige di Ostasio da Polenta, in abito di terziario francescano, morto nel 1396; l’altra con l’effigie di un Alfieri astigiano, Generale dell’ordine conventuale. Quindi le opere del rinascimento e un ricordo fiorentino: l’iscrizione sepolcrale di Nicolò Soderini, esiliato da Firenze, per aver congiurato contro Pietro dei Medici. All’esterno, i resti dell’ardica nei pilastri della leggendaria Cappella di Braccioforte, dove si custodiscono antichi sarcofagi: e il bruno campanile, che rimasto integro e fiero tra quegli avanzi, tramanda dall’alto il suono aspro e grave delle vecchie campane a ridestare intorno gli echi arcani del passato. Accogliendo questi echi, ci compiacciamo ricomporre con la commossa immaginazione la chiesa di S. Francesco nella bella semplicità e severità di un tempo, quale si mostrava ancora, quando Dante Alighieri vi eitrava a pregare e quando vi fu portata la Sua salma per le estreme onoranze. Questi monumenti storici per la nostra chiesa, da chi ne ha scritto di recente, così sono rievocati: «In questa chiesa entrò senza dubbio, chi sa quante volte, Dante Alighieri negli anni che corsero tra il 1317 e il 1321, tra l’ultimo rifugio da lui cercato nella città del silenzio e dell’oblio, delle basiliche e dei mausolei, della pineta e del mare, della signoria polentana e delle memorie imperiali, e la morte, che lo colse al ritorno della ambasceria veneziana: tra la disperazione di riuscir mai a compiere il suo Poema e lo sgorgo della parola finale, ampia come l’universo: L’amor che move il sole e l’altre stelle. Quando il poeta invecchiava lentamente a Ravenna e si approssimava alla morte, la chiesa di San Francesco, presentava ben altro aspetto. Ma Dante vide forse ancora a postoTantico ambone; riconobbe ancora presso di questo la tomba dell’arcivescovo Aureliano (il corpo di Neone era già’ stato trasferito altrove); s’inginocchiò a pregare, «l’alta fronte che Dio mirò da presso chiusa entro le palme», davanti all’altare di Liberio, che allora veneravasi nella cappella consacrata più tardi al Crocifisso.

Cum mundi circumflua corpora cantu Astricolaeque meo, velut infera regna, patebunt Devincire caput hedera lauroque invabit, La corona di lauro egli ebbe, sì, ma nella morte. Rileggete le pagine del Boccaccio. «Fece il magnifico Cavaliere (Guido Novello da Polenta) il morto corpo di Dante, d’ornamenti poetici sopra a un funebre letto adornare, e quello fatto portare sopra gli omeri de’ suoi cittadini più solenni, insino al luogo de’ Frati Minori in Raven la, con quello onore che a sì fatto corpo degno a, infino a qui, quasi con publico pianto seguitolo, in un’arca lapidea, nella quale ancor giace, il fece porre.» Nell’aula di San Francesco, in mezzo ai figli e agli amici sbigottiti e piangenti, in mezzo al popolo riverente e commosso, brillarono per l’ultima volta le umane fattezze del Poeta: quel volto lungo, reso macro dallo sforzo immane del pensiero, quel naso aquilino indicante una volontà di ferro, e le mascelle grandi, e il labbro di sotto su quel di àopra avanzato; e nel pallore diafano della morte rischiaravasi il colore bruno ch’egli aveva avuto in vita, e nella compostezza rigida della morte si aumentava la maestà della faccia malinconica e pensosa... Nessun altro momento più glorioso registra la storia della chiesa francescana. Al paragone di questo si impiccioliscono o svaniscono addirittura tutti gli altri ricordi. Fra i quali tuttavia non dobbiamo passare sotto silenzio il nome di frate. Antonio Santi, quello che nell’ottobre del 1677 denuper revisit, come tutto il mondo sa, le ossa di Dante, trafugate nell’esordio del secolo XVI, dai monaci che vollero salvarle a Ravenna». Non deve pertanto la chiesa di S. Francesco rimanere deturpata e squallida, mentre gli altri nostri monumenti vanno riacquistando lo splendore e la purezza primitiva. La chiesa di Dante ritorni a dignità di arte, e divenga degna di custodire i suoi gloriosi ricordi. «La salma di Dante, come Si sa, fu seppellita in un’arca marmorea antica sotto il porticato di fianco alla chiesa di San Francesco, attigua ai muro ’del convento presso la cappella di Braccioforte. Guido da Polenta avrebbe, se lo stato e la vita gli fossero durati, — come scrive il Boccaccio — onorato il Poeta di egregia sepoltura; ma pochi mesi dopo perdette ’a &gnoria di Ravenna. Per molto tempo nulla si fece intorno all’arca di Dante; solo, dopo la metà del secolo XIV, vi fu inciso l’epitaffio del Canaccio, che tuttora vi si legge; e nel 1483 Bernardo Bembo, pretore per la Repubblica Veneta, la fece adornare da Pietro Lombardo, che l’attorniò di uno scompartimento marmoreo e vi scolpì sopra l’immagine del Poeta leggente. Nel 1780, per incarico del Cardinal Legato Luigi Valenti Gonzaga, il ravennate Camillo Morigia, conservando l’opera lombardesca e distaccandola dal muro del chiostro, a cui si appoggiava, la mise sull’asse dell’odierna e vi edificò sopra l’attuale tempietto