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178 IL BUON CUORE


sta affermativa, fu domandato e venne tosto il Padre Giacomo. La Marchesa Alfieri di Sostegno, nipote dell’illustre infermo, gliene diede l’annuncio; ed egli ravvivatosi tosto e tutto animato rispose alla nipote che subito facesse entrare il curato, non dovere questi starsene fuori ad attendere. Avvicinatosi il Padre Giacomo al conte di Ca vour, questi gli prese e gli strinse la mano; e ringraziatolo quindi della sua venuta, cominciò poco dopo la propria confessione, che fu lunga perchè interrotta dalle soste che si dovettero fare nei momenti, in cui la mente dell’infermo si affaticava o gli si offuscava. Compiuto il reciproco pietoso e sacro ufficio,.il conte rese nuove grazie al Padre e con effusione d’animo gli disse sentirsi ormai pienamente tranquillo contento. Il richiese del sacro viatico, che il pio curato gli promise fra breve. Fu disposto che questo gli sarebbe impartito nelle ore pomeridiane e lo stesso Padre, giunto il tempo, ne porse annuncio all’illustre infermo. E come in quel momento erano pure ivi raccolti i medici tentare le ultime prove dell’arte in un consulto, il conte disse al curato che per ricevere il santo viatico avrebbe pur anco, se fosse abbisognato, fatto di rire il consulto. Però, come non vi era estremo pericolo, cosi fu deciso che il santo viatico sarebbe stato impartito tosto dopo; e frattanto, a richiesta del conte, il.curato si rimase di continuo al suo letto. L’atteso conforto religioso gli fu quindi recato dal vice curato Padre Teodoreto da Alba, accompagnato da quattro altri religiosi in cotta e da molto seguito di popolo accorso mestissimo e commosso a far onore all’au`gusto rito. Il conte ricevette l’Eucaristia con intima soddisfazione, che assai era dimostrata dai tratti del v(-1.-o dagli altri modi della persona, quali consentivali il travaglio del male. Le accennate circostanze del modo onde Fillustre ministro adempì ai riti della religione sono, come dissi di sopra, esattissime; e tuttavia mi inducono a credere, che altri e più minuti particolari circa gli. ultimi comportamenti di quell’illustre uomo, rispetto alla religione, porrebbero in maggiore e vieppiì; chiara luce questa importantissima parte della sua vita che non è fatta con questi nudi cenni. Bensì aggiungerò che il conte di Cavour, dopo aver fatto la sua confessione, visitato da un chiarissimo uomo di Stato, suo amico, gli dichiarò come egli avesse assolti i doveri della propria religione e come bramasse che da tutti si sapesse avere egli ciò fatto, ed averlo fatto spontaneamente e per intima suo convincimento.

Il canonico Gio. Batta AVignone, Direttore del giornale Il Conciliatore, fece seguire la importante relazione, ricevuta da Torino, colle seguenti riflessioni, che al discreto lettore torneranno un saggi() del modi, concettoso ed elevat:, col quale Can. A vignone sapeva scrivere, acquistandosi in mezzo al pubblico una incontestata autorità.

Grati oltremodo alla cortesia, di chi ci trasmise gli esatti e importanti ragguagli della precedente corrispondenza, non possiamo impedirci dall’esporre ai nostri lettori alcuni riflessi che essa ci suggerisce. La morte religiosa di un uomo in cui tutte le doti della natura ed i frutti di studi profondi e la potente operosità nella pubblica vita eransi in gran copia raccolte, non può rimanere senza molta efficacia di bene. Una intera nazione era avvezza a riguardare in questo uomo qualche cosa di più che la scorta fidata di novelli destini: il suo pensiero, la sua parola esercitavano un predominio cosi singolare, da non trovargli facile riscontro nella storia; e la nazione gliene diede ineluttabile prova quando anche nel fervore dei più accesi desiderii mosse, ristette, riprese il viaggio così e colà dove il grande politico accennò. Ora, quest’uomo, in un momento forse abbastanza felice per la sua gloria, ma certo troppo immaturo per noi, corona una vita straordinaria con una morte religiosa. La cattolica Torino era stata da poco tempo conturbata da un altro genere di morte in persona, per diverso titolo, di molta rinomanza e aveva udito su quella tomba, non benedetta, profetizzare il vicino abbandono della fede ai popoli d’Italia. Noi crediamo meglio all’augurio contrario che possiamo trarre dalla morte religiosa del primo ministro d’Italia. E quei timidi di cuore e infermi di credenza che non hanno il coraggio di professarsi apertamente cattolici, apprenderanno anch’essi come le pratiche religiose non tolgano alla grandezza vera di un mino, anzi la cingano di un’aureola più venerata e più cara che quella dei semplici bagliori della gloria terrena. Essi che il moderno satirico chiamerebbe un’altra volta cristianelli annacquati, apprenderanno a non temere il sorriso dell’incredulo. E perchè n’abbiano maggiore fidanza, potranno esser certi che il Conte di Cavour non si condusse (come qualche giornale ha creduto) alle pratiche religiose per insinuazione Ilei congiunti, ma di propria e spontanea volontà. Del resto questa morte anche nella sua amarezza viene, crediamo, a recare una conferma ai principi propugnati dall’illustre defunto e di cui lasciò alla nazione il definitivo attuamento. La grande formola libera Chiesa in libero State, che riassumeva per lui il concetto dei rapporti tra le due supreme autorità e dava la sintesi della futura posizione rispettiva, è ancora male intesa da molti e anche abusata. Alcuni vi riscontrano il completo divorzio dei principii politici dai religiosi; alcuni altri vi sottintendono la Separazione della nazione dalle pratiche e dalle credenze religiose. Gli ultimi momenti del Conte di Cavour sono una pratica spiegazione del senso da lui attribuito a quella formola, il solo in cui essa sia, non solo accettabile, ma feconda di beni. Egli che fu il più sincero amatore di liber