all’originalità del paragone, che vien facile del
resto, rappresentare la trilogia dantesca col Duomo di Milano: «Una selva di guglie, Che,
diverse nella pastura nel punto di movenza nell i grandezza nell’altezza, e ciascuna con la sua base il suo tabernacolo i suoi ornamenti e il suo santo
per sè, congiurano nulla di meno tutte ad una varia
allegra fantastica unità; sta su tutte più snellamente
aerea e splendida d’oro la guglia che sostiene la Vergine, e questa se ai vicini non pare dispiccarsi tanto
su le altre e tra le altre, apparisce ai lontani solenne
e sublime dominatrice dell’immenso e leggiadro ’tempio tutto e solo fatto per Lei.» (*)
Gioverà ripeterlo? trionfo dell’arte, non pure,
- ma della statica: lo scheletro di ferro, di pietra, i muscoli, soavemente mossi a snellezza aerea; tutt’un
sorriso pensoso, una festa ideale. Non appena, adunque, scienza ed estro edilizio, ma sapienza e potenza
di anime furono sublimemente e appassionatamente
ispiranti. Epperò 1a dantologia, scienza unica perchè
_ scienza che indaga lo scibile dell’uomo che dettò la
Divina Commedia, determina la genesi e la contenenza del Poema universale, divino.
Ond’è che, protraendo il paragone a più rilevante motivo, eccoci immani pareti del tempio; unico al mondo, dalle lunghe finestre ’a sesto acuto — le
policrome vetrate riproducenti la storia del Testamento Antico e del Novo, — ecco
•
i massicci, immani,
pilastri a fascio — che per scaluccie interne e peri capitelli comunicano con le stesse titaniche volte; — ,ecco le pareti — affidanti i silenzi dei fedeli raccolti nella preghiera più cara a Dio, la preghiera di tutti — urne l’anima — e in esse le appartate are de’ santi, ri-•
lucenti di voti perenni, di ardenti,lampade adorne,
tutte un pio sfavillio le devote teche; oh! ecco tutto
questo immenso, che secoli di Fede e,,di grazie ottenute hanno consacrato alla storia dell’anime
e di Dio; sì, tutto vi rappresenta che è l’intimo essere e la immensa contenenza della Divina Commedia. «La Fede e l’amore nei loro entusiasmi e nelle
loro aspirazioni, nelle loro lacrime desolate e negli
estatici sorrisi, vivono eterni; è il misticismo, 4cinteso
nella sua più larga e ’comprensiva espressione, cessera solo con l’ultimo palpito dell’ultima creature.» (*)
No; non altrimenti concepì Dante il divino poema
da quel che è nostro Duomo; per il quale e nel quale
il finito e l’infinito, il ricordo del dolore riparatore e
la rivendicazione promesSa, trovarono, vorrei dire, la
loro espressione più evidente, e grandiosa. Esso stesso, il Duomo, è un simbolo: un inirneriso sarcofago.
Qui discende e si sfa, redimendosi, lo spirito,contrito ed adorante, e dice, e dirà l’anima cristiana nei
secoli:
Con che fidente affetto
Vengo al tuo santo trono,
(*) Giosuè Carducci. Prose. Presso la tomba di Francesco. Petrarca. III, pag. 731. Bologna Zanichelli.
(’) Enrico Nencioni. La letteratura mistica. - Conferenza:
in La Vita Italiana nel Trecento. Milano Fratelli Treves 1892..V’atterro ’a/ tuo cospetto,
Mio Giudice, mio Re!
Con che ineffabil gaudio
Tremo dinanzi a Te!
Cenere. e colpa io sono:
Ma vedi CHI t’implora,
CHI merita, CHI adora,
CHI rende grazie in me!
(A. Manzoni)
Copre l’imitiensa tomba, un’elevazione di steli
candidissimi, da moltitudine delle aguglie: il mistico
frumento che Si fa messe al sole della grazia. CRISTO, nell’opera immane di redenzione,.CRISTO
cooperatore,.ad avvalorare l’adorazione dei ririnovellati figli di Eva: CRISTO e MARIA con l’umanità trionfanti. Quanto ascendere! Quale ascendere
dal mutabile e caduco, all’eterno!
Ma come potremmo osare di sostituirci al Poeta quando, fra un corruscar di luci celesti, nel Paradiso stesso, pone, cuspide del divino tempio, immagine della Chiesa militante e trionfante, MARIA:
Bernardo m’accennava, e sorrideva,
Perch"io guardassi,in SUS O; ma io era
Già per me stesso tal (marci voleva;
Chè la mia vista, venendo sincera,
E più e. più entrava per.lo raggio
Dell’alta Luce, che da sè è vera.
Da guinci innanzi il mio veder fu maggio
Che il parlar nostro, ch’a tal vista cede,
E cede la memoria a tanto oltraggio.
Par. XXXIII, v. 49-57
Dante non ci descrive la Vergine; perchè la visione di Lei è premio a chi ottenne la finale vittoria.
Il Poeta, innalzandosi, assurge astraendo dalle forme cOncrete, troppo ahimè, paghe di sè stesse;
abbandonata la terra, l’Alighieri rifugge da tutto ciò
che sa di terreno, pur anche nelle forme esteriori. Egli, che nel «nobile castello», là nel Limbo, accolto
con onore dai cinque sapienti e scienziati dell’antichità, non dubita di eleggersi e dichiararsi «sesto fra
cotantó senno», giunto al cospetto di Maria, scompare
a se stesso: davanti alla Regina degli umili, irradiata luce di Dio, luce di gloria, essa, divina.
«Sì; Tu, o Maria, non dai genii attendi il pfauso, gloria a loro l’aver saputo cantare di Te, Deipara;
estasi Tu, e non fantasma d’immaginativa ferace;
canto la lode a Te; coro di Angeli e di Beati, eco eccelsa dell’AVE! che a Te id Messo dall’empireo Cielo
rivolgeva, a Te, Divina ancella, adorante adorata.»
Si abbellisce di quell’AVE! la poesia stessa che volle
cLiarnarsi evoluta, mettendo in accordo la lira coll’arpa biblica sul mistico motivo dell’AVE, anch’essa
singhiozzò con effusa armonia patetica:
Ave Maria.
Ave Maria! Quando su l’altre corre
l’umil saluto, i piccoli mortali
scovrono il capo, curvano la fronte
Dante ed.Iroldo.