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Che prima di condannare gli altri dobbiamo correggere noi stessi. E’ bello l’amore della virtù e lo zelo pel rispetto della legge di Dio: ma questo amore e questo zelo, se sono sinceri, dobbiamo prima di tutto applicarli in noi stessi: questo è il primo nostro dovere. Questo dovere adempito ci renderà ad un tempo più autorevoli e più indulgenti; più autorevoli, perchè la nostra parola sarà avvalorata dai nostri fatti; più indulgenti, perchè chi fa bene, sapendo quanto costi il farlo e il farlo bene e sempre, trovasi più preparato a compatire chi non è riuscito a farlo: l’essere indulgente gli tornerà anche più facile, perchè l’indulgenza non potrà essere scambiata per connivenza, per transazione di coscienza, per mercato di coscienza, comperando, nella indulgenza nostra verso gli altri, l’indulgenza degli altri verso di noi. Ma chi fa male perde il diritto di correggere il male negli altri. Posto anche che avesse il dovere della correrezione, la sua correzione è priva di ogni efficacia. I proverbi, che sono la consacrazione del buon senso del popolo, hanno con diverse immagini, e in diverse lingue, rilevato il lato riprovevole e ridicolo a un tempo, di chi si fa presso gli altri censore dei difetti che ha presso di sè. Il Vangelo ha già la frase: tu che, vedi la festuca negli occhi altrui, non vedi la trave che è nell’occhio tuo. La Grecia ha la famosa favola di Esopo, delle due bisaccie, la bisaccia grande dei difetti nostri gettata dietro le spalle, per non volerla vedere. Medice, cura te ipsum; tu che vuoi fare da medico agli altri, comincia a curare te stesso, che sei ammalato più degli altri; è proverbio latino. Che predica da che pulpiti; è proverbio italiano, per dire che il bene non deve essere predicato da chi fa male. E’ lo scorno al quale non hanno potuto sottrarsi gli Scribi e i Farisei dell’odierno vangelo. Udite le parole di Gesù Cristo, uno dopo l’altro se ne andarono principiando dai più vecchi. Questa fuga rivelava la colpa. L’inclinazione alla censura dei difetti altrui è in noi destata e alimentata da tre motivi, l’uno più basso e riprovevole dell’altro. Il primo è il nostro orgoglio che ci porta a deprimere in qualsivoglia modo il nostro prossimo, parendoci col deprimere gli altri di rialzare noi. Il secondo è una specie di inganno che facciamo a noi stessi, credendo di ingannare anche Dio, quasi lo zelo nella censura altrui possa mai coprire e compensare le colpe nostre. Il terzo è un’arte raffinata di impostura, per celare al mondo le turpitudini segrete del cuore e della condotta. Come sospettare che faccia male, ’chi si mostra tanto zelante nel condannare il male negli altri? Quante volte sotto lo zelante si cela l’impostore, tanto più tristo e impostore quanto più si mostra zelante! Gesù Cristo scriveva in terra; nan è detto che cosa scrivesse: alcuni interpreti pensano che scrivesse i peccati segreti degli accusatori, e da ciò la loro fuga, cominciando dai più vecchi, che ne avevano di più. Impostori! Non lusingatevi di star sempre celati: Gesù Cristo, se non scrive ora, scriverà nel Giudizio universale, e saranno non più frasi velate e a voi solo nate per la vostra correzione; saranno rivelaTioni pa lesi in faccia a tutto il mondo per la vostra riprovazione. La condanna degli Scribi e dei Farisei non vuol dire approvazione delle colpe della donna peccatrice. Gesù Cristo assolve dalla pena legale, non assolve dalla pena morale. Assolve dalla pena legale, perchè si erano ritirati gli accusatori, e l’accusa era condizione richiesta per l’applicazione della pena, e Gesù Cristo non poteva legalmente sostituirvisi. Gesù alzatosi, disse alla donna: Dove sono coloro che ti accusarono? Nessuno ti ha condannata? Neppure io ti condannerò. — Resta la pena morale. Gesù Cristo, restauratore della legge morale, iniziatore anzi di una legge tutto spirito, non poteva non infliggere questa pena, e la infliggerà, chiara, perentoria, solenne, sia pure con frase mite e soave. Vattene e non peccar più! Ecco la condizione dei perdono di Dio, il proposito di non peccar più, che include il dolore, la riprovazione del peccato commesso. Le parole sono poche, ma il senso è preciso, il precetto è profondo, radicale. Il proposito attuale di non più commettere colpe nell’avvenire è la condizione assoluta per poter applicare la parola del perdono di Dio alle anime nostre. E questo proposito, appunto per essere sincero, deve essere completo, cioè deve implicitamente abbracciare nel voto dell’animo, e prontamente applicare nell’opera, tutti i mezzi che la fede, la ragione, l’esperienza, ci suggeriscono e impongono perchè il nostro proposito riesca. La preghiera, la penitenza, le buone letture, la compagnia delle persone virtuose, la frequenza ai sacramenti, e sopratutto la fuga delle occasioni cattive, specialmente delle occasioni prossime, quelle occasioni che una fatale esperienza ci avverte essere più forti della forza di ogni nostro precedente proposito, ecco ciò che deve assolutamente accompagnare l’atto col quale promettiamo a Dio di non più cadere in peccato. Fuori di lì lo sperare il perdono è un’illusione, fatale illusione. Vattene, e non più peccare! Queste parole, pronunciate da Gesù Cristo alla donna peccatrice, la Chiesa, tanto è prezioso il senso che includono, le ha fatte proprie, e le pone sul labbro del Sacerdote come chiusa nell’amministrazione del sacramento della riconciliazione e del perdono. Solo vi aggiunge una parola: in pace. Il Sacerdote dice al penitente: Vattene in pace, e non voler più peccare. E’ un dolce augurio, e più che un augurio è la sicurezza del gran. bene che il perdono di Dio, quando è meritato, ci porta nel cuore. Chi vorrà privarsi di questo bene? Misericordia aggiunta a misericordia, il darlo a noi non dipende che da noi! Questo fatto evangelico fu dipinto da un grande artista, da Tiziano. Ma in quel quadro mancano due figure: in esso non vi è che la parte negativa della morale cristiana riguardo alla purezza dei costumi, non peccare; manca la parte più bella, più efficace; la parte positiva, che trasformò il mondo collo spettacolo della verginità. A completare l’opera redentrice di Cristo, il pensiero del credente fa quello che non poteva fare l’artista, e vi aggiunge le due figure: Maria Vergine e San Giovanni.

L. V.

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