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Che spiega davanti a Lui solo La pompa dell, pinto suo velo; Che spande ai deserti del cielo Gli olezzi del calice, e muor. Nel 1883, Ruggero Bonghi pubblicò un’altra strofetta che aveva inteso ripetere a memoria da un amico del Manzoni, e si,riferiva alla Madonna. Il Bonghi, quantunque avesse rovistato le carte che appartengono alla sala manzoniana di Brera ed erano dalla Munificenza del senatore Bràmbilla destinate alla pubblicazione non aveva evidentemente trovato in esse nulla dell’inno. Se non che nel igoo, Giovanni Sforza, succeduto al Bonghi nella cura dell’edizione, e più attendo cercatore di lui, scoprì i fogli ove il Manzoni aveva tracciato il canto e ne annunziò la pubblicazione, la quale fu dapprincipio ritardata da una lite con la casa Rechiedei e vinta questa, non è avvenuta ancora, per non so quali ragioni. Quindi da quattordici strofe che ora i a Figli della Provvidenza» pubblicano, sóno per gran parte inedite. Esse derivano da un’altra fonte che non quella di Brera; o meglio da parecchi e altre fonti. Scrive il De Marchi: a Le quattordici strofe •dell’inno le ritrovo prima in una trascrizione di mano del Manzoni con alcune varianti marginali e due sole cancellature: poi in quattro trascrizioni fatte di mano di donna Teresa. Sulla copertina d’una di esse si legge: Copia scritta — Da Teresa Borri Stampa Man soni — Per il mio Stefano; e su quella d’un’altra: I versi seguenti saranno tenuti, da Peppino e Giovan nino miei fratelli, saranno tenuti da loro dico per loro sali, e con grande cura che non pili sieno presi nè sorpresi. — Teresa Manzoni — Borri Stampa. E sotto: Quesfi versi seguenti furono fatti da A. Manzoni a Lesa, nel 1847. Pur di mano di donna Teresa si ha una copia frammentaria in un fascicoletto che contiene oltre a quest’ultimo altri versi coll’intestazione: Versi inediti, di Aleisandro Manzoni; e finalmente strofe e frammenti di strofe dell’Ognissanti si leggono su di un foglio volante con questa:indicazione: Questi

versi furono da me Teresa scritti a Lesa, dietro dettato da (sic) Alessandro che!i diceva a mene, una.che non li rammentava interamente — Lesa ottobre 1857 a sera presente Stefano e Rossari. Pare impossibile che, con tante copie, quei versi, eccetto le quattro strofe mandate dal Manzoni alla Colet. rimanessero inediti!» A di- vero tre strofe oltre quelle citate erano venute in-luce, essendo stato permesso a me di trarle dal manoscritto di Brera. Una prima relativa ai Santi che erano stati peccatori; ma questa che pubblicai, non ricordo bene quando né dove, si attener va ad una variante che il Manzoni, secondo il testo del De Marchi, aveva finto per rifiutare; le due ultime descrivevano il serpente che sedusse Eva e fu calpestato da Maria, e queste apparvero nel Car melo, periodico dei PP. Carmelitani, nel fascicoli del maggio 19o5. Ad ogni modo la pubblicazione curata dal De Marchi è la prima che non solo contenga molta parte d’ignoto, ma dia un numero considerevole di strofe nel loro ordne originario senza nessun vuoi o in mezzo e costituenti una buona parte di ciò che l’inno avrebbe dovuto essere. Non già che quelle strofe, se il Manzoni fosse giunto in fondo sarebbero rimaste imniutate: troppo c’era da fare ancora perché al Manzoni potessero piacere interamente. E forse da un certo impaccio, da una certa disuguaglianza d’alcune di quelle strofe noti sapute superar subito, egli trasse quello scoraggiamento che gli dice interrompere l’inno e scrivere più tardi le famose parole: a Lo cominciai troppo tardi e lo lascia incompiuto appena m’accorsi che non veniva più la poesia a cercarmi, ma mi affannavo io b. correrle appresso». Tuttavia egli aveva avuto torto: chi era stato capace d’i dare tanto volo poetico ad un’argomentazione in forma di similitudine, come quella dei versi sopra riprodofti, poteva bensì essere obbligato a cercare la musa invece di starla ad aspettare, ma l’incontro prometteva d’avvenire ugualmente. In tutti gli altri inni sacri l’introduzione apoarisce non solo pensata per la prima, com’è naturale ma pensata talvolta anche quando non era necessaria, tant’è vero che poi l’ha messa da parte come nel Nome di Maria, il quale ora comincia ex abrup’o col: Tacita un giorno mentre avrebbe dovuto cominciare Con un richiamo alle glorie pagane da coniron’tarsi poi con quelle del Magnifcavit. Invece questa reliquia dell’inno ai Santi non ha introduzione. Evidentemente il Manzoni si riservava di scriverla dopo compiuto il corpo dell’inno, perché questa volta non se ne poteva: far di meno. Quel che ci rimane ncn può star da sè: troppo ha l’aspetto di un discorso avviato e sorpreso a mezze). Le due prime strofe pongono appunto la questione da lui indicata alla Colet; qual merito addusse certi Santi agli altari; a che cosa giovi il tesoro avaro di virtù solinghe. Su quell’addusse noto la citata, lettera d’i Rosmini parla d’una variante che Manzoni stesso aveva proposto nel verbo assunse. Scriveva il filosofo: a Fra l’addusse e l’assunse esitai, parendomi questo più efficace, quello più proprio, giacchè la virtu adduce agli altari, l’autorità della Chiesa assume». La questione è posta in termini precisi ma un po’ secchi e con qualche stento nella musica dei versi, cosa che mal s’tollera nel Manzoni il quale ci ha abituato a un ritmo influente, e talvolta ha piuttosto sacrificato la proprietà di una parola che la scorrevolezza d’un verso. La risposta a questa temeraria domanda del mondo è nelle quattro strofe trascritte, bellissime tutte di suono, d’immagini, di espressioni ardite e cl• eloquenza troncata a un punto, che è uno dei caratteri di ciò che il Carducci chiamava R colpo d’ala inali-zoniano». Dei Santi contemplati si passa d’un trai