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220 IL BUON CUORE


miseria, i subdoli assalti dei morbi germinanti dalla strage per alimentare la strage «Non vi sono pause di pace per i feriti» scrisse un giorno durante il primo armistizio un corrispondente di guerra che, invano aveva chiesto di avanzare coi combattenti, e che dovè accontentarsi di poter avvicinare, quando volesse, quelli che non potevano combattere più, raccolti negli ospedali improvvisati, curati con molta volontà buona — non sempre con sufficienti mezzi — da tutti i volontari e le volontarie dell’assistenza e della carità. — Non vi è tregua per i doloranti! — e forse neppur quasi ricordanza: — non vi è riposo per le mani che a loro si tendono lenienti. E sono — noi sappiamo — quasi tutte mani femminee. Mani diverse: fine e bianche le une, per le quali non basta la rude fatica di qualche settimana a togliere il segno delí’aristocrazia di razza, inciso come per tenue lavoro di sbalzo e cesello nella trama delle vene; ruvide, arrossate, olivastre le altre che portano quasi di soppiatto una loro umile offerta; mani povere che cercane) i poveri, con i quali hanno però comune la favella, la patria, spesso la famiglia, la casa. Vi è in ogni grande e piccolo evento che si svolga fra gli uomini e per gli uomini una sorgente limpida e fonda di bellezza: dove palpita un cuore, dove può, per un istantei pur se niuno sguardo lo colga, rivelai-Si e affermarsi in una nuova o inusata forma l’individuo ineffabile, ivi sorride vittoriosa la ricchezza possente e rinnovatrice dell’umanità. La guerra di Oriente ci ha forse dato per i mille suoi aspetti di glorie e di valore, di crudeltà e di barbarie, di generosità e di egoismo, di altezza e di abbiezione morale, uno spettacolo che non si rinnoverà più L’antica voce che chiamò attraverso i tecoli ad ogni bando di guerra, le pie creature misericordiose, che debbono o riaccompagnare ai sentieri della vita, o condurre fino al transito della morte i caduti, risuonò questa volta ampia e varia come non mai. Le prime a giungere all’appello furono, come sempre, quelle che i secoli e la fede hanno addestrato al compito pietoso: le suore che hanno, le parole e gli atti più soavi, perchè più alto è il loro sguardo, avvezzo a cercare i cieli oltre l’orizzonte; che non hanno patria perchè diviene loro patria quella di chi soffre, e di chi muore; che hanno dimenticato il loro nome pur se fu un tempo accompagnato da un fulgido titolo nobiliare, perchè ne hanno accolto uno. solo, venuto a loro dall’età trascorsa, per essere consegnato all’età avvenire: quello di sorelle. Ma oltre queste eroiche messaggere della fede e della pietà superanti, con la virtù di un sacrificio che appar sòvente quasi miracoloso, l’umanità mediocre o normale, risposero al richiamo molte altre coraggiose, cui non sorride certo il desiderio di dare tutta la vita, ma che son pronte ad immolare al bene altrui qualche mese di penoso e faticoso lavoro. La guerra odierna è forse l’ultima che di fronte all’Europa abbia rimesso a contrasto due civiltà, sa rei per dire due epoche diverse. Le primigenie energie di popoli (non ancora conchiusi entro il molle, vischioso, ma tenace cemento della diplomazia) dilaniando le ultime debolezze di una nazione esausta; si sono dispiegate dinnanzi alla colossale compagine d’interessi e di forze di un aggregato di genti, da tempo avvezze al dominio e al comando. Fra i piccoli segni rivelatori di questo dualismo che non più si ripeterà — almeno in Europa — a me piace notare il diverso modo con che le donne hanno partecipato alla guerra, assumendo la missione di aiutare, confortare, assistere i caduti. Irreggimentate e distribuite in candide schiere, vestite di una divisa che non si può non riconoscere leggiadra, le accenditrici dellà simbolica lampada di miss Nithtingale partirono da ogni angolo di Europa, per giungere là ove si soffriva e moriva. Di molte, molte sapemmo subito, per la molteplice complicità dei giornali di tutte le nazioni, il nome gentile: le varie Kodak dei corrispondenti e magari dei dilettanti ci hanno trasmesso altrettante giovani imw.gini leggiadre d’infermiere volontarie. Questo, ne conveniamo, non diminuisce per esse le fatiche e i disagi, spesso inesorabilmente inevitabili, ma aiuta — nevvero? — o offrir gli elementi — a chi compilerà la storia della Croce Rossa -- per una bella, interessante pagina regalmente illustrata. Ed è giusto, dopo tutto, ’che sia così! La civiltà moderna ha disciplinato, diviso, suddiviso, le opere di assistenza e di previdenza, le ha moltiplicate per dare a tutte le donne un posticino, per il quale si può acquistare un poco della pubblica ammirazione, a fare nondimeno qualche cosa di bene. Ancora una volta dobbiamo rammentare che l’eroismo puro, alto, disinteressato, di se stesso dimentico, non si può attendere da tutti. La filantropia non conta sulle dedizioni infinitamente generose di vite di fortunè intere; ma senza dubbio il suo largo richiamo alla assistenza degli infermi, vittime della guerra, è una delle sue più caratteristiche esigenze di quelle che richiedono, da chi l’accoglie, generosità maggiore. V’è chi potrà obbiettare che la pietosa opera lusinga ed attira molte anime femminili anche per le emozioni nuove che dona, perchè seconda il muliebre desiderio di - spettacoli inconsueti, perchè sospinge verso piaghe ignorate e meravigliosamente pittoresche, già sorrise all’ansiosa fantasia; perchè i drammi dei popoli hanno una grandiosità che raramente si ripete; e ciascuna verrebbe cogliere imprigionare nel ricordo un lampo vivido di bellezza tragica che s’accenda e fiammeggi sovra il terribile spettacolo delle ecatombi umane. Ma perchè sottilizzare? Perchè menomare la poesia di che si usan circondare le dame rosso-crociate? Comunque esse impersonano per i malati l’attribuzione più dolce della donna; che tutta la femminilità par talora s’includa nel gesto della mano che porge il balsamo, che passa leggera sulle fronti febbrili, che fa schermo agli occhi deliranti perchè non veggan più le immagini di sàngue, che solleva il volto vergognoso dei vinti i quali possono così, sen