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IL BUON CUORE | 147 |
Lamennais, riconobbe nella democrazia la forma più equa e più ragionevole di convivenza civile, l’ultimò termine del progresso politico verso cui Dio guidava l’umanità. Questa democrazia aveva un contenuto che la distingueva profondamente da quella che la seconda e la terza repubblica volevano attuare; e senza trascurare le riforme relative al miglioramento economico, mirava a elevare il livello spirituale delle classi lavoratrici. Essa mirava ad attenuare l’antagonismo che si andava disegnando minaccioso fra classe e classe, a superare le antitesi e a conciliare gli odii che dilaniavano le membar della nazione. Essa fu l’ideale di Montalembert, di Lacordaire e di tanti altri spiriti eletti, che compresero le esigenze dei tempi nuovi, il sogno che rifulse, sino agli ultimi anni di sua vita, innanzi agli occhi ammirati di F. Ozanam. ai.cru — egli scriveva ad un amico nel 1848 je crois enrore à la possibili/é de la dénzocratie chrétienne, je ne crois ménze à rien autre en matière de politique. Gli articoli pubblicati nello stesso anno sull’Ere nouvelle ci dicono quanto questa fede fosse profonda e quale alto grado di elevatezza avesse raggiunto. La Francia ch’egli amò e alla quale dedicò gran parte delle sue energie morali e intellettuali, seguì, coa grande rammarico degli uomini che ebbero comune la fede dell’Ozanam, vie diverse. I sensi di carità e di fratellanza andarono sempre più affievolendosi, quando più l’ostentazione filantropica e i proclami ufficiali pareva volessero svilupparli. La democrazia divenne, grado a grado, un teatro di esperienze per le prove di mestieranti senza idee, un amalgama di piccoli e bassi sentimenti sostituiti alla generosità, al disinteresse, all’attività e a tutte l( altre forme di capacità personale esaltate nelle antiche repubbliche. L’ideale dell’Ozanam era troppo alto e il suo sogno era troppo bello perchè gli uomini che immediatamente seguirono alla sua generazione potessero attuarlo. Ma non per questo gli uomini, che unito alla fede cristiana han vivo il senso di carità di patria e di pietà dei deboli, hanno rinunziato ad amarlo, come ultima meta delle loro aspirazioni sociali e politiche.
za. C’era nel suo amore qualcosa di- intimamente francescano. I luoghi e le cose inanimate lo attraggono e lo innamorano; il camposanto, il Duomo di Pisa, la campagna toscana, le antiche chiese dell’Umbria, hanno un brano del suo cuore. Egli passa con la viva coscienza di lasciare una parte di sè fra i monumenti dell’arte che conobbe e amò come pochi conobbero e amarono. Grande amarezza gli destò, negli ultimi anni di sua vita, l’atteggiamento che molti dei suoi compagni di fede assunsero di fronte alle vicende politiche dell’ora, quando l’elogiata alleanza del trono e dell’altare", piuttosto che frenare aveva aiutato il dilagare di una irreligione spaventosa, e ogni voltariano afflitto da qualche migliaio di lire di rendita voleva mandare tutti in chiesa, pur di non mettervi mai piede. L’uomo che aveva accolto con entusiasmo i primi atti del pontificato di Pio IX e che amò gl’ideali di G. Caponi, S. PC1lico, N. Tommaseo, ebbe un profondo senso di sconforto quando in patria e fuori riprese a imperversare, intaccando gl’interessi supremi della fede, il soffio della reazione. Il movimento di ritorno alla Chiesa, che aveva rallegrato la sua giovinezza, si andava rallentando, e una grande amarezza, venata di un’onda sottile di pessimismo, occupò il suo spirito. Il male inesorabile che doveva presto condurlo al sepolcro progrediva, ma i propositi di altri lavori e i dolci legami familiari lo univano alla vita quanto più esso avanzava e lo toglieva dalla medesima. Ed egli morì con la piena coscienza del sacrificio,’ sereno e rassegnato come colui che ha finito lavorando la sua giornata, obbediente alla voce del Padre Celeste, che lo chiamò nella pienezza della virilità, con in cuore le fiaccole ardenti della carità e della fede.....
Il Faraglìa in una serie di articoli pubblicati sulla «Rassegna Pugliese» e ora riuniti in volume, ci fa conoscere un momento tipico e singolarissimo della storia abruzzese, e insieme, di quella dell’ordine francescano che ad essa si rilega. Egli dopo avere con la molta armonica equibrata attività di storico, partecipato e non per la minor parte, al vivace moto di rinnovamento che dalla coltura napolitana si è propagato alla coltura nazionale, torna con questo studio alle buone memorie del suo Abruzzo, che con tanta tenerezza nostalgica ricordava nella prefazione al volume degli «studi storici delle cose abruzzesi». Con la sua tranquilla e ornata prosa egli ora ci riporta al quattrocento nostro, in mezzo a baroni tumultuosi e a fiere cittadinanze, che la religione ammanta, e la parola dei santi ristora e frena.
Passò lavorando e beneficando. La sua vita fu breve, ma sufficiente a sviluppare tutti i germi che arricchivano il suo spirito eletto, spirito veramente superiore e assai lontano dalle bassezze e dai raggiri della capitale. La sua vita fu come un’olocausto offerto con rinnovato fervore tutti i giorni sull’altare della Divinità. La rettitudine delle intenzioni fu pari alla nobiltà dei propositi, la sicurezza e la squisitezza dei sentimenti alla bellezza e alla bontà delle idee. Nel suo mondo interiore l’amore e la fede furono come l’aria e la luce. Il bisogno di vita intima, il bisogno di amare e di essere amato reclamarono sino alla morte un largo sodisfacimento, quale invero lo ottennero dai primi agli ultimi giorni della esisten Carmelo Caristia.
Memorie francescane in Abruzzo