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358 IL BUON CUORE


Educazione ed Istruzione

figure d’uomini d’altri tempi


Gaetano Lionello Patuzzi

(Continuazione e fine, vedi n. 43).


Il Patuzzi tornò a Verona nel 1871, nominato professore nell’Istituto tecnico Provinciale, dove insegnò, apprezzatissimo, per molti anni, Carmina non dant panem; e questo potevan dire a maggior ragione di quelli d’oggi i letterati d’allora.

Dei veronesi contemporanei al Patuzzi, anche il Betteloni trovò uno stipendio nel Collegio così detto «degli Angeli» e Giuseppe Fraccaroli, che doveva diventare un illustre ellenista, sfacchinava a dar lezioni private, mentre Carlo Gargioli faceva il regio provveditore e Adolfo Gemma il notaio.

Fu quello un bel cenacolo veronese, nel quale Gerolamo Rovetta portava — come disse il Bolognini — la vivacità indiavolata e satirica, profusa ne’ suoi drammi e nei suoi romanzi. E capitava in mezzo ogni tanto il Carducci, che inneggiava a Castelvecchio, all’Adige e a Teodorico e adorava il Lago di Garda.

Ma il Patuzzi, specialmente negli ultimi suoi anni, era andato trascurando l’arte sino a rompere con essa ogni rapporto: invecchiare mentre l’ingrata ringiovaniva anche un poco alle sue spalle.

Fatto presidente della locale Accademia di Lettere e Scienze, esercitò la pazienza negli studi di Folklore ed aiutò i fratelli Bolognini nella compilazione di un eccellente dizionario veronese-italiano. Poi gli fu affidata la Direzione del Collegio Provinciale, che lo appassionò e lo assorbì. Ormai ogni sua ambizione erasi rifugiata nel desiderio di lasciare un’impronta durevole del suo apostolato di educatore: e l’efficacia educativa non la traeva dall’applicazione dei metodi altrui, ma dal proprio carattere e dalla propria esperienza.

Se quest’uomo avesse abbracciati di proposito gli studi pedagogici sarebbe riuscio certo un eccellente teorico, ma non un pratico più felice e valente di quello che si dimostrò.

Nel profilo che il Bolognini presentò di lui non fu il tentativo di presentare un uomo straordinario, ma il proposito d’illustrarne quelle alte qualità di carattere e d’ingegno che inducono ad un sentimento spontaneo d’ammirazione e d’affetto.

E chi conobbe o chi non conobbe da vivo l’uomo coscienzioso, operoso e benefico che morendo lasciò tanto lutto tra gli intelligenti e tra i buoni, si sentì vicino ad una di quelle rare creature che quasi si fanno invidiare per il grande equilibrio della loro mente e del loro carattere: e pensò con un rammarico e con tristezza alla cresente decadenza di questo equilibrio negli uomini che nel tempo nostro sono preposti o si sono imposti nella vita, nell’arte e nella scuola con qualità solo apparenti, od anche opposte ai grandi fini della civiltà, dell’intellettualità e della educazione spirituale.

Perchè in questo intensificarsi dei bisogni sociali e privati, in questo dilatarsi crescente delle aspirazioni: in questo eccesso d’ogni attività corporale e mentale, il tipo normale dell’uo.no sano di volontà e di coscienza non potrebbe essere più raro a trovarsi.

Pirro Besso

La morte dei due Giuseppe

Da Mons. Biermans.


Tra le molte occupazioni del Missionario, vi è pur quella di assistere i condannati a morte. Il caso che sto per raccontare non è l’unico che mi sia capitato, ma quando l’avrete letto, capirete perchè lo prendo a narrare.

Due Baganda, Zeligwao e Bakiddao, si erano resi colpevoli di un orribile omicidio premeditato per cui, caduti che furono nelle mani della giustizia, la loro sorte non era dubbia.

Avvisato della cosa da un membro del Parlamento coloniale, mi recai al carcere. Due soldati mi condussero gli infelici, tutti e due sulla trentina, avvinti alla medesima catena.

— Mi conoscete, amici, dissi loro.

— No, signore, rispose uno, ma vedo che siete un sacerdote. L’altro tacque.

— Quale è la tua religione? domandai.

— Io, disse, solevo leggere coi cattolici e avevo principiato a imparare le preghiere.

— E tu, amico mio? chiesi all’altro.

— Sono pagano, rispose tetro.

Esortandoli io a prepararsi seriamente alla morte, Bakiddao il primo, acconsentì di cuore, ma l’altro fu intrattabile.

Uno dei soldati, per fortuna, era un buon cattolico: lo pregai d’istruirli ogni giorno. Poco dopo costui mi fece sapere che Bakiddao imparava bene, ma l’altro non voleva sentir nulla.

La condanna a morte prefissa dal Governatore non si fece molto aspettare: doveva essere eseguita l’indomani mattina. Mi affrettai al carcere. Bakiddao era come fuori di sè: cadde ai miei piedi, piangendo e supplicando che gli ottenessi la grazia! Alla fine lo calmai e gli parlai del Battesimo. Con grande attenzione mi ascoltò; sapeva bene le principali verità e si pentiva del suo peccato.

— Bakiddao, chiesi io, vuoi tu essere battezzato, diventare un uomo dabbene, ed andare in Paradiso?

— Sì, Padre, voglio fare una buona morte.

— Ebbene, dissi, accetta con rassegnazione la tua condanna, prega bene, pentiti, e domattina ti battezzerò.

— Grazie, Padre, rispose.

E Zeligwao? Dovetti purtroppo tornare a casa, lasciandolo ostinato più che mai, niente commosso dalle mie urgenti istanze, nè da quelle del suo compagno di catene. Quanto melanconico fu quel ritorno!

L’indomani, poco dopo le cinque, ritrovai i due infelici, seduti in una piccola veranda, attorniati dai