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IL BUON CUORE 269


ticato, un vinto che la grande carovana ha lasciato cadere, senza raccoglierlo, nel suo incessante pellegrinaggio e che è rimasto a riscaldare al bel sole di Napoli le sue intirizzite illusioni.

Questo dimenticato è Giovanni Tamberlani, un attore che ha circa ottant’anni di vita e ne ricorda, come si dice in gergo, cinquantadue di palcoscenico.

Io non so — ho detto dianzi — quale sia stato, in questi giorni, più rattristante per me se la visione rapida, quasi improvvisa di quella fine imprevista e la contemplazione lunga di questo lungo tramonto.

Pieno di acciacchi, colpito a segno nella sua fibra robusta che tenacemente resiste, Giovanni Tamberlani, che seppe le ebbrezze dell’applauso e passò trionfante accanto ai più grandi attori e alle più celebrate attrici d’Italia, è l’attore tipico che vive di un suo mondo speciale, che vive quasi una vita interiore, riuscendo, in virtù della sua arte, a dimenticare, a far dimenticare a chi per caso lo avvicini, i suoi incessanti dolori.

Vive solo. Di che? Non ho mai osato domandarglielo. Egli è tanto riserbato! Ma ho creduto di capire che moralmente e finanziariamente viva del suo passato fastoso, e non certo, credetemi, lautamente. Lo ricordano i suoi compagni d’arte che hanno una casa propria, che hanno ancora un teatro, che hanno un pubblico, ah, sì, un pubblico che è tutto per chi di esso è vissuto, che li applauda? Lo ricorda Eleonora Duse il suo biondo caratterista fiorentino, un po’ mordace, un po’ maldicente, ma di spirito, ma brillante, elegante, sempre?

Giovanni Tamberlani, che con loro ha diviso i palpiti e le gioie, che con loro ha passato i mari, recando su palcoscenici stranieri la favella italica, non credo che pensi a ricordarsi a loro, egli che è un po’ sdegnoso e, un po’, giustamente, forse sdegnato. Le sue uscite sono rade e quasi uniformi: va dal medico che lo cura, si capisce, per niente, e va da chi vuole acquistare qualcosa del suo sfarzoso vestiario. Tra una visita e l’altra bussa alla porta di un dilettante o caccia il capo bianco, con qualche lontana sfumatura dell’oro giovanile, fra le quinte di un teatro di filodrammatici per cercarvi lavoro. Ma ad ogni uscita è un pezzo del suo passato che se ne va, materialmente e moralmente, un passato che si sfalda ineluttabilmente. Quanto durerà? Basterà il passato sfolgorante a sostenere fino alla fine quella vecchiezza? Moralmente, sì, perché egli ha l’anima giovanile e su di essa i dolori scivolano come le gocce d’acqua sulle vetrate. Egli sorride e con sidera i suoi ottant’anni come una volta considerava i suoi trent’anni: vale a dire che non li ha in nessuna considerazione. Il suo è un tramonto ardente che lo induce alle più strane fantasticherie e gli dà — supremo conforto — la gioia dell’oblio del presente.

Io sono stato un giorno a trovarlo a casa. Abita in un vecchio e sudicio palazzetto che si apre in un fondaco angusto e buio della Napoli vecchia. Una coppia di operai gli ha ceduto in affitto una stanzetta minuscola della casa che.... ne ha due soltanto. La casa è vuota tutto il giorno, perchè gli operai vanno al lavoro e tornano a notte alta per cadere affranti di fatica sui loro pagliericci. L’attore insigne, che appagò il suo
sguardo di mobili laccati, che suscitò in Italia e oltremare, cori ammirativi per la sua arte, per la sua eleganza, per la sua simpatica persona, si aggira solo nella casa buia e sudicia e non ’ha altri per sè che le buone pietose donnette del vicinato le quali si alternano nel rendergli qualche piccolo servizio.

Orbene, un uomo che non avesse passato tre quarti della sua vita sulle tavole di un palcoscenico, che non fosse stato un attore di vocazione, si ammazzerebbe o morrebbe lentamente di malinconia in tanto squallore in tanta solitudine. Invece egli mi ricevette col suo più bel sorriso e mi introdusse nella sua camera come se mi avesse sospinto in una reggia.

Là era tutto il suo mondo e si contrastavano la miseria dell’arredamento e le vestigia di un passato splendore. Il lettuccio modesto un po’ pericolante nella sua vecchia ossatura di ferro e l’orologio da viaggio sospeso al capezzale nell’astuccio di cuoio; una rozza tavola zoppicante sulla quale si ammassavano giornali teatrali, riviste, fotografie delle più gloriose personalità del teatro italiano e straniero; accanto a un comodino pieioso una pelliccia un po’ vecchia ma che deponeva di passata agiatezza e tutte le pareti, le pareti vecchie ingiallite, tappezzate di Tamberlani fotografati nelle pose più varie, nei costumi più diversi, i Tamberlani di una volta, paffuti, giocondi, sorridenti, beati, sfrontati.

La visita fu breve. Sedemmo su di un grosso baule. Intorno a noi ve n’erano altri dieci, qualcuno di più qualcuno di meno.

— Sono tutti pieni di roba — mi disse l’attore. — Potessi almeno trovare un compratore! Sono costumi di tutte le epoche. Erano il mio tesoro e adesso sono il mio tormento. Son due anni che abito qui. Brava gente, ma non si vede mai. Se mi verrà voglia di morire, morrò solo come un cane. Trovassi almeno da fare una recita. La «Gerla», per esempio, o «Il ritorno dalla guerra», un lavoro di attualità, ora, che mi sta benissimo.

— Ma siete ammalato, ora. Pensate prima a guarire.

— È vero! Ma come guarisco se non lavoro? come lavoro se non mi sento in gamba? — E rise un po’ tristemente al bisticcio.

Ci lasciammo. Egli mi disse che si sarebbe messo a letto e mi pregò di incaricare una ragazzina che era giù nel fondaco di portargli mezzo litro di latte.

— Fosse almeno buono come quello che ho bevuto in Olanda! — mi disse con rimpianto. — E venga a trovarmi. Le mostrerò il vestiario e qualche dono delle serate. Ho tutto qui, venga!

Sull’uscio che mi chiusi dietro le spalle era incollato un cartello su cui lessi, scritto a penna: «Giovanni Tamberlani, artista drammatico. Lezioni di al te scenica e di bella pronunzia».

Oh, santa illusione! Sarò stato forse il solo a leggere quel cartello da due anni che vi era.

Pasquale Parisi.



La NONNA è un capolavoro di una freschezza e di una originalità assoluta.