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268 IL BUON CUORE


ufficiali. Un esercito in cui tali cose succedono deve essere per fatalità di cose un esercito demoralizzato.

Teniamo bene aperti gli occhi, dunque, perchè in Italia non succeda nulla di simile.

L’A.

Dal fasto della scena

alla realtà della vita.

Nessuno vive tanto più fuori della vita quanto co loro che la vita ogni giorno, infaticabilmente, riproducono, studiandola nei suoi più diversi aspetti. Mi formai questo convincimento molti anni fa, quando per la prima volta conobbi da vicino un attore che avevo seguito per lungo tempo a debita distanza, facendoci, cioè, dividere sempre dalla fila di lampade della ribalta, e nel medesimo convincimento venni raffermandomi in seguito, quando cioè, l’esercizio del giornalismo mi offrì occasioni di dimestichezza con attori.

Parrebbe che dovessero aver conoscenza di tutto questi uomini che assimilano le più opposte passioni umane e non conoscono, invece, che il loro mondo, quel loro mondo che abbraccia tutto il mondo e che, invece, è angusto, è soffocante, è misero, chiuso,eternamente nei brevi confini di un fondale e di una fila di lumi interrotta dal cupolino del suggeritore. Parrebbe che non dovessero stupirsi di niente, nella vita, questi uomini che piegano il loro cervello e il loro corpo alle più audaci fantasie di scrittori e, viceversa, si stupiscono di ogni cosa e principalmente di ciò che nella vita è più comune, più banale, più alla portata di tutti. Un fatto straordinario che irrompesse nella loro vita con un baccano d’inferno potrebbe lasciarli impassibili come la cosa più naturale di questo mondo. Al contrario sono essi che si smarriscono quando nel loro mondo si determina qualcosa che è di tutti e che essi credevano fermamente prerogativa di quell’altro mondo che non li riguarda se non per la cassetta e per gli applausi, quel mondo che vive al di là dei lumi e del suggeritore.

Con uomini cosiffatti non è dato a tutti di vivere da vicino in buon accordo. Ma colui che vince le prime resistenze, colui che sa intonare, almeno apparentemente, la sua vita alla loro, ha innanzi a sè un vasto campo di osservazioni da mietere e una infinità di sensazioni nuove da raccogliere, le quali assai spesso, purtroppo, non sono delle più liete.

In questi ultimi giorni parecchie di queste sensazioni si sono affollate al mio spirito e lo hanno sottilmente conturbato provandomi ch’io appartengo tuttavia al mondo che sta al di qua dei lumi, e che si ha un bel frequentare i camerini degli attori, quel benedetto cupolino è una barriera quasi sempre insormontabile.

Io, dunque, ho assistito, in questi giorni, alla fine di un attore ed ho contemplato a lungo, da vicino, il tramonto di un altro e, in verità, non saprei dire quale dei due spettacoli sia stato per me il più triste e quale per l’osservatore che era in me, il più interessante.

Ferruccio Garavaglia, affranto da una vita breve ma
tumultuosa, ma irrequieta e ribelle, non era più, da qualche tempo, un grande attore se non di nome. Perduto il dominio di se medesimo, aveva con esso smarrito la facoltà di sovrapposizione che distingue un attore da ogni altro uomo. Egli da tempo — poco tempo! — esibiva sui palcoscenici se stesso piuttosto che la creatura che doveva incarnare. Ora, il valore di un attore non deriva dal suo carattere personale: non è con la sua sensibilità ch’egli commove, nè con le sue gioie e i suoi dolori. Se egli pretende mettere in valore stilla scena le sue qualità individuali di uomo e non di attore, risulta sempre inferiore a chi queste qualità, senza possederle, prende a prestito per creare il tipo. In Ferruccio Garavaglia di questi ultimi mesi le sofferenze personali occupavano troppo posto perchè egli potesse ancora valersi, sempre che ne abbisognasse, di quella qualità di sovrapposizione che è caratteristica dell’attore. E la rivoluzione prodotta dal male inesorabile nel debole organismo aveva determinato un singolare disquilibrio per cui spesso accadeva che egli fosse più attore nella vita che sulla scena e più uomo sulla scena che nella vita.

In queste condizioni lo colse l’estrema crisi del male. Provando «Il piccolo Santo» occupò, un giorno, due ore a spiegare ai suoi attori come e perchè dovessero apparire sulla scena lievemente impolverati. Magnifico sforzo nella cura di un dettaglio che poche parole bastavano a determinare; ma sforzo sproporzionato alla sua resistenza. Egli spendeva energie e danaro senza rendersene conto e si trovò alla soglia della morte con una duplice enorme sorpresa che riluceva nel suo sguardo stanco: quella di non aver più forze per resistere al male e quella di non aver più danaro per pagare le medicine. Ed io ebbi la sensazione ch’egli fosse stupito così della sua miseria fisica come di quella economica, e che fosse enormemente sorpreso di dover morire, egli che era tante volte morto sulla scena, egli che si credeva come tutti gli altri attori una creatura d’eccezione alla quale nulla dovesse accadere che agli altri accadeva.

Morì, e intorno alla sua bara quella parte di umanità che risiede al di qua dei lumi si affollò con viso compunto — tranne qualcuno — perchè i suoi nomi e i suoi titoli venissero riprodotti nel necrologio. Ma io notai una profonda e sincera e incontenibile commozione nei compagni d’arte, una commozione che sorprese tutti. O dunque, gli attori sapevano anche piangere davvero?

Sì. Essi si commuovono e piangono in determinate circostanze, quando accade, cioè, in mezzo a loro, un fatto speciale che prova essere essi creature d’eccezione, una casta particolare che si distingue dal resto della umanità. Allora questa casta, nonostante le lotte, le gelosie, le inimicizie che le son proprie, sente il dovere di raccogliersi, di stringersi in un abbraccio fraterno e piange le sue vere lacrime.

Così accade quando muore — o nasce — uno di essi; così, infallibilmente accadrà quando morirà — e speriamo che sia ancora molto lontano questo giorno — un altro della enorme, errabonda famiglia, un dimen-