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246 IL BUON CUORE


Parigi, e che sto ora lavorando, non è sostanzialmente religiosa, bensì la religione vi è introdotta co’ suoi precetti, e co’ suoi riti; insomma l’opera non è apologetica, qual mi pare la supponeste». Era tuttavia poetica, piena di quell’interesse umano che il Manzoni voleva infuso in ogni opera di poesia vera, e la cui mancanza nell’Urania gli aveva raffreddato il poemetto fra le mani, facendogli scrivere al Fauriel: «Voi avete voluto copiare questa piccola rapsodia? Voi! Se avessi ora la voglia e l’indiscrezione di intrattenervi di queste bazzecole direi che sono molto scontento di quei versi, sopratutto per il loro assoluto mancamento d’interesse; non è così che bisogna farne; ne farò forse dei peggiori, ma non ne farò più come questi». E qualche anno dopo, nel 1812: «Sono più che mai del vostro avviso sulla poesia; bisogna che essa sia tratta dal fondo del cuore; bisogna sentire, e sapere esprimere i sentimenti con sincerità (non saprei come dire altrimenti)». E passando allo stile degli Inni: «quanto allo stile e alla versificazione, dopo essermici un poco tormentato, ho trovato il modo più facile, ed è di non pensarci affatto.... Mi sono ricordato dell’oraziano verbaque provisam rem non in vita sequentur, che trovo essere la sola regola per lo stile...». Gli Inni passano inosservati; ed il Manzoni non se ne rattrista affatto. Egli rimaneva sempre quel desso; gentiluomo e signore senza vanità, letterato senza furori di gloria e senza ambizioni, tempra di scrittore e di uomo infinitamente lontana e diversa a un Foscolo, a un Alfieri, a un Leopardi. Egli era piuttosto della famiglia del Grossi e del Porta. E non voleva saperne nè di giornali letterari, nè di battaglie chiassose; osservatore disinteressato di se stesso degli altri, molto più freddo del Goethe, il quale era olimpico in quanto appunto si sentiva alto e superiore ad ognuno. Il Manzoni rimane in conspetto all’arte sua al movimento letterario italiano, in una posizione unica, che forse nessuno occupò mai prima di lui, nè certo nessuno riacquistò mai dopo. Anche quando parla delle Osservazioni sulla morale cattolica, lo fa senza calore, e non si sente in lui l’amor proprio del padre nè altro affetto che il proprio intimo compiacimento di un lavoro tranquillo ed onesto, condotto in campagna fra le cure degli alberi, della famiglia e degli amici, fra le conversazioni e le letture che pare quasi gli servissero a passare in dolce ozio il tempo.


Le tragedie.

Così anche delle sue tragedie, il Carmagnola e l’Adelchi che scrive in questi anni, apparentemente senza altra fatica che della elaborata e curiosa e ingegnosissima preparazione storica e critica. Vorrebbe avere accanto a sè il Fauriel per cavarne un qualche lume sul buio profondo di quei tempi. La leggerezza e presunzione degli storici non gli desta nessun moto di sdegno: solo, vorrebbe avvertirli bonariamente che non sanno nulla.

Alfine, compiute le tragedie, si mette alla prima composizione del romanzo, senza farcene sapere nulla. Comincia, semplicemente, a lavorare. E con la figura di quest’uomo che tormenta con delicati scrupoli un amico perchè gli mandi libri su libri e vecchie storie, ecc., ecc.
si chiude questa prima parte dell’epistolario attraverso il quale abbiamo mosso forse un po’ lentamente i nostri passi erranti. E li abbiamo mossi con molta quiete riposo quasi direi dell’anima; perchè questa è qualità del Manzoni, uomo e scrittore e par che s’apprenda naturalmente a chi nella vita lo segue e lo osserva nell’arte.

Epistolario, diremo, non grande come non copioso; tutt’altro che ricco, anzi povero; un epistolario al quale, eccettuate forse poche lettere e qualche biglietto, Alessandro Manzoni non pensava. Non pensava, scrivendo agli amici, di preparar nulla pei posteri: nè rivelazioni intime, nè sorprese, nè la cronaca, nè la storia di sè medesimo e delle cose sue. Le lettere di Ugo Foscolo, di Giacomo Leopardi, del Tommaseo e del Capponi entrano a far parte della letteratura italiana: sono prosa pensiero, passione e contrasto, critica e cultura; sono episodi rilevati di umanità eloquente e vigorosa. Delle lettere di Alessandro Manzoni non si può dir tanto. La parte critica e culturale la ritroviamo ben altrimenti sviluppata nelle sue prose; egli non aveva voglia nè di raccontarsi nè di indagarsi per lettere ai conoscenti e agli amici. Era pigro; era parco, era ineffabilmente ascetico. Ed è, così come ci appare, un che di non bene distinto e quasi di confuso tra l’uomo antico ed il nuovo. Scriveva le sue lettere su per giù come le scriviamo noi, oggi, che non abbiamo più il tempo di scriverle, e non le sappiamo scrivere. E ne ha lasciate poche, come certi scrittori antichi. E forse si potrà dire un giorno alcun che di più vero che non si sia detto finora sul Manzoni uomo, a parte l’ingegno. Che cioè fu savio, ma anche innegabilmente mezzano e limitato, senza passioni quotidiane che potessero dar valore e rilievo al racconto della sua vita mortale. Fu molto economo di sè medesimo. Non visse in espansione lirica, come il Foscolo, la sua vita mortale: non la visse letterariamente come il Tommaseo, nè psicologicamente e pedantescamente come il Leopardi. Una lettera del Manzoni non sa essere nè una bella pagina di prosa, nè uno stato d’animo travagliato profondo. È qualche cosa di infinitamente meno. Ma egli volle che fosse così. Il suo ideale era nella vita, non nella letteratura. O se era nella letteratura, questa si chiamava lirica, romanzo, tragedia, non mai epistolario.

Accettiamo dunque il compimento della sua volontà.



Carteggio di Alessandro Manzoni, a cura di Giovanni Sforza e Giuseppe Gallavresi; con 12 ritratti e 2 fac-simili, 1803-1821. — Milano, Ulrico Hoepli, editore, pagg. xx-610, L. 6,50.

Il rifugio di lbsen ad Amalfi

I bibliografi di Enrico Ibsen, a proposito dia «Casa di bambola», sanno ed annotano solamente questo: che essa fu scritta nei tre mesi autunnali del 1879 ad Amalfi. Niente altro: troppo poco per chi ama di ogni grande figura rappresentativa conoscere le consuetudini l’ambiente entro il quale essa operò.