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86 IL BUON CUORE


Tolemaide si ritirano verso la patria raccogliendo quanti più possono, profughi, e schiavi redenti. Trenta galee procedono, a forza di remo, verso Roma, e per Roma, verso tutta l’Europa combattente: sono le galee pontificie. Un’insegna le guida che non significa orgoglio di città nè governo di paese: la croce; un’idea le conduce lungo le acque tragiche: l’idea della civiltà fatta compiuta nel vangelo cristiano. E a servizio dell’idea un nucleo forte e vigile di energie guerresche: la marina pontificia.

Di questo nucleo inscindibile capace di tutti gli ardimenti, il P. Guglielmotti vuole essere lo storico, il poeta, il mago; egli vuole riporre nella sua piena luce vittoriosa il secolare drappello dei marinai romani, ai quali il fulgore della causa divina che essi difendevano fu, agli uomini e alle storie, occasione più di oblio che di esaltamento. Sì: una grande idea pulsava nel cuore di Roma cristiana; di un magnifico messaggio di conquista e di libertà si faceva banditore, ininterrottamente, il puntefice, a tutti i popoli confessori di Cristo, spesso i popoli rispondevano, talvolta rispondevano i potenti della terra, le repubbliche del mare: le crociate avevano raccolto in effimere e pure efficaci concordie di guerra, Genova e Venezia, Francia e Borgogna, Pisa Spagna: ma pure sotto l’orifiamma cristiano s’alimentavano i desideri di mammona; e regni e repubbliche sognavano — in nome della croce — il dominio dei traffici e il trionfo dei commerci.


Le navi cristiane.

Che cosa sognava l’armata di Roma?

Perchè il messaggio del Pontefice si faceva vivo e squillante nell’esempio magnanimo: da Roma non partivano solo appelli alle Crociate e lettere ammonitrici, partivano anche, e sopratutto, le nostre galee gloriose, la flotta pontificia, o feudale o municipale, o venturiera o nazionale o principesca, batteva, sempre, la via del mare, signora e serva insieme di chiunque avesse voluto combattere la buona battaglia.

E quando i mercanti di Venezia o i conquistatori di Francia restavano sordi all’appello rinnovato del Papa, allora da Civitavecchia, le galee pontificie partivano sole, umili e superbe; partirono sole nell’800 come parti solo Pio li nel 1400, come partirono Ludo visi e Zambeccari al soccorso di Candia. Sì che quando i Saraceni tentarono la tremenda rivincita fu solo contro Civitavecchia, il porto papale, che versarono la loro iracondia vendicatrice.

Civitavecchia, la città forte, che Guglielmotti riguardava con grande orgoglio di figlio e che egli amorosamente sussegue nella sua storia di libertà, dagli ultimi giorni della flotta gloriosa, fin ai primi quando nel 928 essa si sottraeva al dominio bizantino affidandosi lealmente al governo del Papa — cui servire libertas — per divenire, di Roma pontificia e dell’Europa cristiana, il contrafforte italico più robusto.

Da Civitavecchia muovevano le galee pontificie: quando, soggiogati i Saraceni, i Turchi, barbari, ripresero lo stendardo di Maometto, da Civitavecchia mosse, a comandare gli alleati di Giovanni XXIII, Stefano Colonna,
a combattere in fronte all’armata maomettana che Marcantonio 236 anni dopo, doveva sgominare a Lepanto. E immediatamente prima di Lepanto, sessant’anni di guerra quotidiana contro i corsari turchi, la marina pontificia aveva sostenuto, guidata da capitani illustri — Da Biassa, Vettori, Doria, Salviati, Orsini, Sforza — mentre la munificenza saggia dei pontefici chiamava a Roma i maestri nuovi dell’arte della fortificazione, a consacrare e a sviluppare nel granito e nel bronzo i principi della fortificazione bastionata: Teccola, Guazzalotti, Sangallo, Bramante, Michelangelo cingevano Roma e il suo mare di baluardi magnifici, dal Pentagono di Astura, alla Rocca d’Ostia, al forte di Nettuno, alla piazza forte di Civitavecchia.

E Lepanto episodio, non epilogo: il volume destinato ad illustrare Marcantonio Colonna sebbene primo nell’ordine della pubblicazione, pure, nell’edizione definitiva della Storia appare il sesto fra i nove volumi.

P. Guglielmotti, rievocando il trionfo s’era fatto amico e quasi fratello d’armi coli’ ammiraglio romano la cui opera egli illuminava di nuova compiuta luce.

E conchiudendo il volume mirabile, egli, con la classica robustezza della sua parola di storico e di poeta, depone la penna come un cavaliere avrebbe, dopo l’evento, deposto la spada, come i padri suoi dovettero deporre, dopo la fatica vittoriosa, il docilissimo remo.

«Io però, tra le mura del chiostro e sulle carte dell’età trascorse dolorosamente ripensando all’ingratitudine degli uomini, che fa più grande e mesta la mia solitudine, non ho cessato fatica per rinverdire nella memoria e nella estimazione dei posteri la fama dell’altissimo campione. L’ho seguito nei suoi viaggi, ho narrate le sue gesta, l’ho accompagnato alla tomba. Qui mi fermo, qui oro, qui poso alquanto la penna a ritemprare l’animo stanco del passato e fiducioso nell’avvenire»

(Continua).

Religione


Vangelo della quarta domenica di Quaresima


Testo del Vangelo.

In quel tempo, passando vide Gesù un uomo cieco dalla sua nascita: e i suoi discepoli gli domandarono: Maestro, di chi è stata la colpa, di costui, o de’ suoi genitori, ch’ei sia nato cieco? Rispose Gesù: Nè egli, nè i suoi genitori han peccato: ma perchè in lui si manifestino le opere di Dio. Conviene, che io faccia le opere di lui, che mi ha mandato, fin tanto che è giorno: viene la notte, quando nissuno può operare. Sino a tanto che io sono nel mondo, sono luce del mondo. Ciò detto sputò in terra, e fece con lo sputo del fango e ne fece un empiastro sopra gli occhi di colui. E dissegli: Va, lavati nella piscina di Siloe (parola che significa il Messo). Andò pertanto, e si lavò, e tornò che vedeva. Quindi è che i vicini, e quelli che l’avean prima veduto mendicare, dicevano: Non è questi colui, che si stava a sedere chiedendo limosina? Altri dicevano, è desso. Altri, no, ma è uno, che lo somiglia. Ma egli diceva: Io son quel desso.