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36 IL BUON CUORE


occhi per cui passa uno strano guizzo di luce. Mi è bastato: io sono pronto a giurare che quel giovinotto lì, per padre Girolamo sarebbe pronto a farsi trucidare.

— Ed ora che fai?

— Un po’ di tutto: lavoro, studio, vado a spasso e.... suono.

— E che cosa suoni?

— L’harmonium e il pianoforte.

— E chi ti ha insegnato?

— Nessuno: ma padre Girolamo mi ha promesso che mi farà dare scuola.

— Bravo — e vedendo lì presso un harmonium, lo invito a farmi ascoltare un pezzo. Da prima si schermisce ma poi finisce col cedere. Si siede con molta gravità e comincia. Sono rimasto incantato: su di un semplice tema che ha qualche rassomiglianza coi canti dei nostri mietitori, compone una melodia facile, affettuosa, tutta piena di tenui sonorità e di dolce mestizia.

— Bravo! — gli dico di cuore dopo che ha finito; ed egli, sorridendo felice, mi ringrazia.

— Dimmi un po’: tornerai a Bengasi?

— Ora che ci sono gl’italiani sì, ci tornerò. Ma io sto molto meglio qui a Roma.


Le astuzie della carità.

Intanto è rientrato il padre Apolloni col quale ho ripreso il discorso interrotto.

— E questi giovinotti, padre, come ha fatto a farli venire in Italia?

— Astuzia, astuzia, mio caro! Ne ho vestiti alcuni da mietitori, altri da conducenti di cavalli e li ho imbrancati con i veri mietitori e con i veri conducenti. Così han passato la dogana turca.

— Si, si — interrompe Abdallah — io ho passato la dogana che tenevo ancora il cavallo per mano.

— E le autorità turche non dicevan loro nulla perchè tenevano questi negri?

— Non potevan dir nulla perchè essi figuravano come nostri servi e così non incappavamo in nessuna legge turca. A un frate francescano furon tolti due bambini che egli aveva preso in consegna da una madre moribonda: e questo solo perchè i due bambini stavano presso il frate senza nessuna attribuzione speciale.

— Ed i ragazzi che cosa fanno nel loro istituto?

— Studiano e lavorano: chi fa il falegname, chi il fabbro, chi il muratore, però tutti indistintamente sono dei buoni contadini.

— Ed ora, padre, sono finite tutte le ansie e tutti i timori, nevvero? Ora potranno lavorare tranquillamente.

— Ah si l finalmente l’Italia fa valere i suoi diritti! Ha un largo campo da sfruttare in Cirenaica e tanto, tanto bene da fare dovunque. Soltanto con la repressione della tratta degli schiavi farà un’opera bellissima di grande umanità.

— E lei tornerà a Bengasi?

— Certamente. Non posso lasciare il mio istituto che io ho tirato su dal nulla e a cui sono affezionato come una donna alla sua casa. E poi là ho tutti i miei figliuoli che mi vogliono tanto bene!

Abdallah sorride e accenna di sì col capo.

Io mi congedo: saluto Abdallah ed il padre Apolloni che gentilmente mi accompagna fino all’uscio di strada. Salutando nuovamente esco: però, appena chiusa la porta, mi rivolto e non vedo più il bel volto sereno di padre Apolloni. Non nego: ho provato lo stesso dolore che si prova quando ci si divide da un amico a cui si voglia molto bene e da molto tempo.

Guglielmo Ferri.

La villa dalle cento fontane

Come una fantastica sultana cui piace effondere le gemme, dimenticarle talora entro gli scrigni preziosi, ma pronta sempre ad adornarsene, quando le prenda vaghezza di sfoggiar or l’uno or l’altro tesoro, la città nostra leva il suo sguardo appassionato sovra le stesse sue ricchezze, solo quando qualche cosa le rammenti che non son più tutte sue, che altri le ammira, che altri ha ormai il diritto di trarne vanto.

Quanti romani conoscono bene; quanti fra i nostri hanno più volte visitato e ammirato la storica villa dalle cento fontane di cui tutti parlano oggi? Oggi si levano le voci di ammirazione, talune perfino di rimpianto benchè in realtà vi sia più ragione di compiacimento che di rammarico per la nuova destinazione della villa secentesca.

Essa appartiene per diritto di eredità all’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria, erede al trono. Fu portata in dote da Beatrice d’Este, ultima erede di Ercole III d’Este, e sposa ad un Absburgo.

Per molti anni vi risiedette il Cardinale Hohenlohe; ed ora il legittimo proprietario Arciduca Ferdinando permette che lo Stato ne faccia la sede di un’accademia di Belle Arti per gli studenti austriaci ed ungheresi. Come e quando tale accademia sarà costituita non è ancora noto; ma quello che noi possiamo prevedere con certezza, si è che presto quell’angolo paradisiaco tutto cinto di spume argentee, come una fata di veli, tutto sonante di voci, di fruscii di acque cadenti, si animerà presto di nuova vita. Se la villa d’Este, come il Palazzo Farnese avesse potuto facilmente tornare nostra, se come il palazzo Farnese ci fosse stato pressochè offerto — e nondimeno lasciato passare in mani straniere — avremmo diritto di dolerci. Ma il gesto dell’arciduca Francesco Ferdinando non può non apparire degnissimo, sì verso il suo Stato, che verso l’insigne opera artistica italiana, cui mostra di saper dare tutto il valore facendone una scuola d’arte; che volere o no, sarà scuola d’arte italiana. Roma — ospite divina dei pellegrini del sogno — degli innamorati della bellezza, non può che sentirsi materna verso le sitibonde anime che vogliono fare dell’arte unico oggetto della loro vita.

Le sue gallerie, i suoi musei sono in qualche modo un dominio universale, che, non vi sono barriere nei regni della bellezza! Gli studenti della nuova accademia austriaca sentiranno in Villa d’Este palpitare l’anima italica più che in qualunque altro angolo della su-