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il buon cuore 347

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Educazione ed Istruzione


Per una restaurazione

della musica italiana

Non è trascorso un mese da che le Cronache letterarie annunziarono, in un articolo di Giannotto Bastianelli, la costituzione di un comitato «per il risorgimento della grande musica italiana che, dalla fine del settecento ad oggi, ha seguito un periodo di decadenza e di affarismo».

La notizia e l’articolo che la conteneva, lo confesso, mi sorpresero, poichè non è facile intendere a che mirava il nuovo comitato. Esso è composto da Renzo Bossi, Ildebrando Pizzetti, G. Francesco Malipero, Ottorino Respighi e Giannotto Bastianelli, quasi tutti giovani e quasi tutti favorevolmente noti nel mondo musicale, alcuni per le loro opere, altri per la loro coltura e per le loro idealità artistiche. Da un gruppo così costituito, anche a voler essere pessimisti e diffidenti, c’è sempre da attendersi qualche cosa di buono... quando però è ben tracciata la via da percorrere e quando è ben definito il miraggio da perseguire.

Ora a me sembra che la nuova istituzione difetti appunto in questo: che, cioè, abbia formulato un assai vago ideale da raggiungere e che, nell’entusiasmo non abbia guardato nè ai mezzi per toccare il fine, nè alla consistenza e alla possibilità dell’ideale stesso.

Non c’è dubbio che «il risorgimento della grande musica italiana», la «decadenza», l’«affarismo» sono delle belle parole che impressionano chi le ascolta, non c’è dubbio neppure che messe assieme possano far senso a chi ama la musica italiana e la vuole onorata e rispettata, ma resta sempre da discutere e sempre da precisare.

Per partire da un punto estremo, noi constateremo senza difficoltà, che la crociata che muovono i futuristi contro la musica vecchia e più accessibile se non più persuasiva. Essi ci hanno detto, nel loro stile clamoroso, quello che vogliono e noi siamo padroni di riderne quanto ci piace, ma non di dubitare delle loro assurdità, il nuovo comitato — non se ne dispiacciano i componenti se li avvicino troppo ai futuristi — mi pare che voglia precisamente il contrario, mi pare, cioè
che voglia la restaurazione del carattere nazionale della musica italiana. È così o m’inganno? E se è così, con quali mezzi vuole raggiungerla? E che cosa vuole intendere per restaurazione del carattere nazionale della musica? E quale — infine — è il carattere nazionale della nostra musica?

Se queste parole saranno lette per caso dai componenti il nuovo comitato di restaurazione, io penso già che muso faranno specialmente all’ultimo interrogativo. Ma quando si è in tema di divagazioni astratte, essi dicono la loro ed io la mia, e bisogna bene sopportarsi a vicenda.

I pochi interrogativi che ho enunciati sono i numeri di un largo questionario che mi viene in mente ogni volta che sento parlare di musica nostra e di musica degli altri: di musica nuova e di musica vecchia; di vergogna musicale presente e di splendori passati. L’occasione offerta dal comitato restauratore è buona se non a far risolvere tutto il questionario — e non sarebbe questo nè il tempo nè il luogo — almeno a discutere sui pochi interrogativi che ho formulati.

I mezzi per raggiungere questa restaurazione musicale, sono, mi sembra, pochissimi e forse due soltanto. O esumare le musiche vecchie ed imporle all’attenzione ed alla ammirazione del pubblico, o obbligare i musicisti, almeno quelli che compongono il comitato, a comporre musica, diciamo per ora, sroile a quella che nel passato diede un carattere alla produzione musicale italiana. Che ve ne sieno altri non so. Orbene anch’io ho visitato talvolta qualche biblioteca di un grande istituto musicale, anch’io ho visto dormire in quei grandi cimiteri tranquilli e polverosi centinaia di partiture orchestrali ed operistiche, anch’io ho pensato ai tesori di sentimento, di armonia, di passione che giacevano obliati e negletti negli scaffali rosi lentamente dal tarlo secolare. E con me molti altri non hanno sognato, ma hanno con fede ritenuto possibile una risurrezione di quelle vecchie melodie che fecero versare lacrime di tenerezza, che suscitarono, coi loro ritmi gai, clamori di entusiasmo, che provocarono, per la loro modernità, ire dispettose e controversie di popoli, che inebriarono per la loro semplicità, la quale parlava direttamente al cuore il più puro, il più nobile, il più suggestivo linguaggio della passione.

Ma quante volte s’è tentato di mettere in iscena una vecchia opera, con tutto il rispetto che essa meritava, vale a dire con uno scenario decoroso, con artisti di fama, con una orchestra ben guidata, tante volte il successo è stato — come dire? — un successo di stima. Occorreva agli intenditori richiamare alla memoria l’epoca gloriosa alla quale l’opera apparteneva e tener presente la fama secolare del musicista, per accettare tutto il bagaglio di ritornelli, cadenze, virtuosità che l’opera conteneva. E le imprese, reso un omaggio all’arte italiana, ha finito sempre per restituire alle loro tombe le creature che una fervida, amorosa illusione, ha creduto di poter fare rivivere. Perchè tutto ciò? Perchè, io penso, manca al nostro pubblico una sufficiente educazione musicale che valga a fargli intendere tutti i pregi... archeologici delle vecchie musiche. Le