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342 il buon cuore
loro canzoni talchè all’osservatore sembra che quel canto, in tutto il suo corpo, salga, salga lentamente per poi ad un tratto confondersi alle eterne, inaudite armonie del cielo e sperdersi, così come una goccia nel mare, pelle imperscrutabili profondità dell’infinito. Tutto tace allora: e solo qualche assiolo, simbolo del dolore umano che mai non posa, va ripetendo di qua di là i suoi tristi, lugubri chiù-chiù che sinistramente echeggiano nel folto della notte.

E allora che il silenzio regna sovrano e che ogni più impercettibile rumore nettamente si palesa al nostro orecchio, allora comincia il vero canto degli alberi.

È questo un canto tra i più armoniosi, tra i più suggestivi: sembra che questi esseri inanimati dal corpo scabro e dalle chiome verdi, sotto quella scorza cupa rude accolgano un cuore capace di un dolce sentire cedano agli impulsi di questo: tanta è la dolcezza della melodia e tanto precisa ne è l’esecuzione.

Ecco, voi udite: che è? un uccellino forse ha cambiato di posto? un sasso è caduto? Non si sa: ma avete perfettamente inteso un leggerissimo frusciar di fronde: ha avuto la durata di pochi momenti ma quel suono ha lasciato nell’aria un dolcissimo accento metallico che ancora, con l’insistenza del ricordo, vibra nelle vostre orecchie. E questo rumore impercettibile quasi è l’inizio della grande sinfonia che tra poco si farà udire. Tra poco infatti giungerà colui che è l’anima principale del canto degli alberi, colui che desta gli spiriti canori della selva: il vento notturno. Ecco, ecco! sentite laggiù tra le gole di quei monti lontani quello striscio continuo simile al rumore della pioggia cadente? È il vento che giunge: esso ora ansima e sbuffa poichè ha dovuto chiudere la sua enorme corporatura fra le strette forre montane, ma sentite, sentite ora che è sgorgato all’aperto, nella grande vallata, sentite come liberamente canta e come trascorre veloce e baldanzoso!

E questa corrente d’aria fresca e odorosa che v’inebria è lui che la porta: e non solo inebria voi ma... sentite? anche gli alberi della selva godono del vostro godimento. Cominciano laggiù i pioppi che hanrío nella scorza argentea i riflessi della loro più grande amica, l’acqua: sono stati i primi ad essere baciati dal vento subito i radi ciuffi di verde che capricciosamente sbocciano su per il tronco hanno avuto dei lunghi brividi di piacere che si sono risolti in canto. Immediatamente a questo succede un’infinità di voci: anche la forte e nera elce ora è avvolta dalla stretta del vento: sentite questo canto rozzo ma sincero e squillante? è il suo: e par che in esso qualche cosa ancora permanga dell’antica religione dei padri, dei costumi dei nostri progenitori. Eppoi i festoni di edera che cadono giù dai massi muscosi, urtandosi ai rovi, uniscono la lor voce argentina; i nocciuoli con il loro pispiglio sommesso e grave dànno come un’intonazione ieratica a quella sinfonia che dilaga solenne e maestosa: così pian piano tutti gli alberi della selva danno il loro contributo canoro finchè, a sostenere l’accordo di quell’orchestra vivente, entrano con le loro voci poderose le quercie ed i castagni. Allora, benchè nella sconfi-
nata oscurità della campagna, non vi sentite più soli: quella musica nè umana, nè divina vi conquide: vi trascina col pensiero in altre regioni dove mille esseri strani vi dan compagnia. Quel canto vi narra di altre epoche, di fatti sconosciuti quando gli alberi svettavano a toccar le stelle e gii animali erano delle enormi moli semoventi: vi narra, e voi comprendete, tutto quello che giace da secoli ravvolto nelle viscere della terra, nell’oscura custodia delle miniere di carbon fossile. E quella musica sublime che è l’armonia di un momento e l’armonia di un’infinità di secoli, prosegue intanto a spandersi nell’aria odorosa della notte: sempre eguale e sempre varia, sempre antica e sempre nuova e bella, essa racchiude nella sua voce qualche cosa che ci appartiene e che si era perduta attraverso la tempestosa fuga degli anni, forse per mai più tornare.

Intanto giù per la vallata, di tra l’argenteo molleggiar delle nebbie, sale uno stridulo incessante cricchiar di grilli, e le stelle, su nell’alto, ammiccandosi, rispondono con le loro voci, mai fioche per trascorrer di secoli, ai canti notturni delle anime vegetali.

Rispondono le stelle? Sì: ma son tanto lontane che bisogna far molto silenzio per poterle udire. Io le ho udite. È un canto stranissimo, di cui nessuno può avere idea. È un canto fatto di diverse vibrazioni luminose che unendosi e fondendosi insieme, danno una grande e incessante armonia. Ma ora mi avvedo che non è cosa da potersi descrivere facilmente e che, anche descritta bene, non può essere altrettanto bene compresa. Ma anche un’altra voce hanno le stelle, anche un altro canto: la voce e il canto del silenzio. Il canto del silenzio, sì! Non è forse un’ai monia magnifica quella che esala dal solenne, religioso zittire di tutti e di tutto, uomini e natura? Il silenzio è la voce dell’infinito e qual voce è più grande, più forte, più suggestiva di questa? Ebbene le stelle rispondono col silenzio interrotto da quel fulgido sprizzar di luci che a me dan tutta l’idea di altrettanti scoppietti di risa.

E forse ridono le stelle: ridono, esse splendide, esse immortali, della pochezza vile nostra e di tutto ciò che ci circonda e della nostra morte. E in quel canto di silenzio che esse rispondono al sonante armonizzar degli alberi, v’è tutto lo scetticismo tutta l’ironia loro da esseri superiori. «Stolidi» forse esse dicono nel loro instancabile tremolio, «a che gridate, a che vi agitate tanto? Forse per godere l’ebbrezza dell’ora che fugge? La morte vi sovrasta ed un solo dei nostri scintillii vale tutta la vostra effimera esistenza!» E certo, non forse, certo dicon così, poichè se fosse altrimenti, quel senso di oppressione, di scoramento quasi che vi invade al contemplare un cielo tutto trapunto da miriadi di stelle, da che proverebbe? a quale causa risalirebbe? Alla coscienza della nostra piccolezza! Sia pure: ma questa coscienza noi non l’abbiamo se non in quanto s’agita e vive in noi il concetto dell’altrui grandezza: e chissà che, come tante altre cose tramandate fino a noi da generazione in generazione, anche questo inconoscibile timore non sia stato tramandato a noi fin da quei tempi in cui gli alberi svettavano a toccar le stelle, gli animali erano