Pagina:Il buon cuore - Anno X, n. 42 - 14 ottobre 1911.pdf/5


il buon cuore 333
duro. Quella croce posta nelle tue mani, ti invita a ritornare spesso alla croce. La rosa poi a te consegnata, significa la purissima castità, il profumo della quale si espande agli amici. Per questo, io ti ammaestro come fa un padre col figlio suo quando predicherai al popolo, mostrati coi peccatori trattabile e umano, e negli ammonimenti che farai contro i peccati, metti in vista nel tempo stesso ai peccatori la mia clemenza che volontieri dispenso al peccatore che a me ritorna. Tu altresì, o figlio mio, rendi te stesso grave di costumi in tutte le tue opere, perchè sempre sarò con te se però tu non mi perderai per tua colpa. Ti benedico da parte del Padre, da parte mia e dello Spirito Santo e anche della beatissima Vergine Maria, dalla quale mi degnai prendere carne per la salute di tutto il genere umano».

Quanto cuore in queste parole, quanta pace di perdono provato, quanta compassione pei peccatori, che filo di lagrime scorre silenzioso per queste righe!

Ah quel calice, quella croce, quella rosa! quell’essere trattabile e umano, quella clemenza che volontieri si dona...! E quella benedizione!

Come si vede la Santa sotto i veli di questa semplice, angelica letteratura! E quali sublimi rapporti si capisce dovevano esistere tra questi due cuori separati. Ah nemmeno un lamento si incontra nella loro separazione! Si, poichè, qual legame vi è mai, per quanto sublime, che possa tener legato il cuore dei Santi in modo da provocarne lagnanza verso Dio nel distacco? Delicatissimi nella vera amicizia cristiana, in cui sono entrati come in un mare, dove farvi certi viaggi più belli con qualche anima privilegiata, che Dio ha voluto loro avvicinare, essi non si rifiutano di provare le tempeste che egli permette al Nemico di suscitare o che direttamente vi suscita Egli stesso, per loro maggiore purificazione e sua gloria maggiore.

Essi praticano cosi ciò che il mondo e le deboli amicizie umane non arrivano a capire: la perfetta libertà del cuore nel più sacro adempimento di tutte le leggi dell’affetto. La ragione è che essi sono ordinati nel loro amore, non amando se non per Dio e in Dio, e per conseguenza adorando sopra ogni cosa il volere di Dio unico principio e termine del loro amore. E anche quando la natura riceve il loro tributo di lagrime e di schianto, come ad esempio nella Chantal, che passa decisa ma in uno scroscio di pianto sul corpo del suo Celso Benigno ingrandendo l’aureola di madre con quella di santa, quel tributo non resta che una prova più grande della loro libertà che essi hanno fatto trionfare a sì caro prezzo; così nei giorni della felicità essi sanno mescolare sempre alle loro purissime gioie, la goccia preziosa della mortificazione che li tiene pronti ad ogni distacco, a guisa della giovane santa Elisabetta d’Ungheria duchessa di Turingia, già da noi ricordata, che tutte le notti si rubava alle sante carezze del Duca, suo degno marito, per gustare le dolcezze della penitenza sulla nuda terra ai fianchi del letto coniugale con una mano m quella commossa di lui (1).

Intanto alla Chiesa di S. Basilio veniva eletto a nuovo rettore D. Badia Venturi, un’anima sacra, anch’essa ritornata da una strada che somigliava a quella battuta dalla nostra santa ne’ suoi giorni indegni, e oggi grondante di lagrime e spezzata dalla contrizione. Ella lo ebbe per sette anni confessore. Chiedevano perdono insieme e piangevano insieme. Lontani entrambi dal mondo di cui avevano sentito l’amaro, andavano con voli ardenti verso Dio.

Ma anche questo conforto sublime, doveva essere trammezzato da sublimi dolori. Le gioie in questo cuore inquieto non potevano durare. Sola, in cima a un monte, con l’ala soltanto di quell’angelo della penitenza che la sorreggeva mentre ella stessa gli comunicava la forza di sorreggerla, pareva che nulla le mancasse per gustare Iddio. E sarebbe stato così se Dio stesso non si fosse ritirato per farsi trovare da lei unicamente col merito della aridità di spirito. Due anni ella visse così, chiamando ad alta voce il suo Signore, scongiurando D. Badia a parlarle di lui, uscendo in certe ore di sole sui prati alti, a cercar Dio alle roccie e alle nubi per ritirarsi senza averlo incontrato, per sentirsi crescere lo spasimo della cancrena che le incominciava a torturare la bocca. Non era soltanto la natura che le teneva il cuore così nobilmente inquieto, era Dio che la amava così, che la aiutava a farsi in tal modo più degna di possederlo. Le permise tentazioni tremende di disperazione con mille fantasmi della sua antica vita di peccato. La gettò nel più basso concetto di sè, fino a che, un giorno, la si vide scendere un tratto la china del monte, tutta in pianto, chiamando Cortona ad aiutarla ad andarsene, pregando che la cacciassero via perchè era stata e si sentiva una indegna. Fu allora che Cortona si commosse e capì chi scendeva dal monte incarnando in se la legge e il consiglio di Dio, e le si improvvisò una di quelle processioni, che raramente si leggono avvenute nella storia dei popoli. Ella dovette ritirarsi confusa, e Dio la ritornò nella pace.

Si era ormai agli ultimi due o tre anni della sua vita. In città scoppiarono nuovamente gli odi di parte tra Guelfi e Ghibellini. Ella scrisse al Giunta che chiedesse licenza dai superiori di ritornare in Cortona a predicarvi la pace. Nelle parole della Santa c’era la volontà di Dio. Il Giunta, chiamato dal superiore, tornò, ricompose le famiglie dei Ranaldi, dei Rossi, dei Recabeni, e ripartì avendo nel cuore la profezia di lei che non sarebbe morta prima di un altro suo ritorno.

La Santa scrisse una, due, tre volte al vescovo di Arezzo Guglielmino perchè desistesse dalle sue lotte: egli non l’ascoltò, e i nemici lo finirono.

Si distese allora la calma su Cortona e sulle vicine città. Non guerre al di fuori, non lotte intestine. L’ospedale, le poverelle, la fraternità della misericordia, spandevano olezzi di carità. La Santa non era solo amata, era adorata; il figlio suo avanzava nella virtù; suo fratello Bortolomeo si preparava a farsi terziario; le figlie sue spirituali andavano e venivano in torno a lei come angeli raggianti. Anche la cancrena alla bocca si era arrestata. L’anima era in una quiete immensa.

  1. Comte de Motalembert, Histoire de S. Élisabeth de Hongrie. Douxieme édition, tonte premier, pagg. 248-249. Paris, Ambroise Bray, 1867.