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gliono disarmarsi davanti a vite, di purezza e di sacrifizio, di eroica virtù, che rigettano d’attenersi, nei loro apprezzamenti, alla regola lasciata dal Maestro, dove saran posti da Cristo? Fra le pecore docili alla voce divina della verità o fra coloro che non l’ascoltano, perchè non son del gregge benedetto?

Perchè noi non badiamo alle opere e tanto, invece, ad altre parvenze prive di valore, per giustificare un giudizio? Se Gesù ha detto che chi fa il bene è da Dio, perchè ci scostiamo, a volte, da chi lo compie per motivi creati da noi? Non ha un valore eterno la parola del Vangelo? O forse noi l’abbiamo dimenticata? Oh, impariamola ancora, allora, e non dimentichiamola più la parola del Maestro, perchè essa sola ci può guidare a salvezza e su di essa noi saremo giudicati.

Educazione ed Istruzione


Charette, l’eroe della Vandea

L’hanno rievocata nell’agosto scorso, sul limitare del bosco della Chabotterie, uno dei più selvaggi della Vandea. Vecchi soldati, vecchi marinai, superstiti zuavi, bretoni giunti da tutte le parti, dal monte, dalla falaise e dal piano, s’erano dati colà convegno per scovrire un monumento, destinato a tramandare ai posteri la memoria di Francesco Attanasio Charette de la Contrie, «generale supremo delle armate cattoliche e reali».

Una croce di granito, dalle braccia cariche di fiordalisi, emergente da un fascio d’armi e di vessilli. Sul piedestallo un’epigrafe ricorda, che colà, il 23 marzo 1796, Charette cadde tra le mani del generale repubblicano Travot. Così uno dei periodi più tragici e più belli della storia di Francia è tornato a vivere nelle menti... Charette e la Vandea! Giosuè Carducci non aveva forse torto, quando, discorrendo di Orlando, affermava la cavalleria francese aveva esaltato il suo spirito sotto le mura di Ravenna, col bel Gastone di Foix? Più equo dell’autore di Ça ira, Hugo ha celebrato il genenerale dei Vandeani come l’erede diretto di Bajardo e di Duguesclin. Svaniti in gran parte gli odi, i livori, addensati dalla tempesta rivoluzionaria, gli storici rendono oggi giustizia all’eroismo disperato dei combattenti di Vandea e del loro capo.

Oh la terribile epopea! Allo scrosciare della Rivoluzione, i contadini assediano, invadono i castelli, Essi vogliono, che i signori vandeani piglino con loro le armi; e si mettano alla loro testa. E da per tutto dei dialoghi s’impegnano, rapidi e drammatici, come quello corso tra i contadini di S. Martino di Beaupréau ed il cavaliere d’Elbée: «Tornate sotto i vostri tetti, disse d’Elbée, ecco la notte; la notte porta consiglio. Se domani persisterete, io mi porrò alla vostra testa, ma sappiate questo: le vostre donne disonorate, i vostri figli massacrati...». Il giorno dopo, i contadini torna-
rono più numerosi: «Eccoci qui, abbiamo riflettuto. Mantenete la vostra parola, noi manterremo la nostra».

Charette aveva accolto anch’egli con diffidenza lo slancio della moltitudine. Quando i contadini vennero a cercarlo, il futuro generale in capo delle «armate cattoliche e reali» diresse la folla verso la chiesa. Sull’altare stava aperto il Vangelo. Ponendo la destra sul testo sacro, Charette giura di morire piuttosto che abbandonare la causa della libertà della Vandea. Poi, rivolto verso gli spettatori: «Giurate, soggiunge, giurate d’esser sempre fedeli alla causa dell’altare e del trono. Giurate, che m’obbedirete sempre!». E tutti, levando le armi, ripetono il giuramento.

Egli era già temprato alla lotta terribile. Quando assunse il comando dei «gueux» vandeani, non contava trent’anni. Uffiziale di marina a sedici anni, tenente di vascello quattro anni dopo, egli s’era lasciato trascinare dal moto incomposto degli «emigrati»; ed aveva al primo infuriare della Rivoluzione, abbandonata la Francia, varcando la frontiera. Ma gli ozi di Coblenza gli ripugnarono. Ripassò il confine venne a Parigi, ed il giorno dell’assalto delle Tuileries, Charette era sulle soglie reali tra i dfensori. Lo buttarono in prigione: l’intervento di alcuni amici lo salvò dalla ghigliottina. Nei primi anni della sua giovinezza, ospite d’uno zio in piena foresta di Retz, egli aveva, nelle lunghe cacce appassionate, appreso come si fa a scorrere, balenando attraverso le gole, le macchie fitte, i precipizi silvestri. E s’era preparato, così, a quella guerra di Vandea, che Hoche definì «la guerra sui precipizi».

La leggenda lo ha trasfigurato (tutta una flora di canzoni vandeane parla di lui), ma i testimoni assicurano che l’aspetto non offriva niente dei caratteri classici dell’eroe. Aveva una voce dolcissima, muliebre quasi; ma si trasformava, assumendo un timbro metallico, quando comandava. Le cronache vantano la sobrietà, la resistenza alla fatica, le lunghe giornate, passate senza nè bere, nè mangiare, e vantano il suo disinteresse, la sua generosità, la sua cortesia. La stupefacente strategia, che riuscì con masse scarse e disordinate, a respingere l’uno dopo l’altro, con mosse da scoiattolo, gli eserciti repubblicani, s’accompagnava ad un coraggio indomabile. E del resto, egli stesso dettò in uno scritto, conservato nella biblioteca di Nantes, che le qualità del capo devono essere sovratutto queste: sangue freddo innanzi al nemico, precisione nel comando, fiducia nella propria causa, disprezzo del pericolo, infine....

Tutte le storie raccontano le fasi del duello gigantesco, durato tre anni, tra i vandeani di Charette e la Rivoluzione. Quel che han commemorato nell’agosto scorso nel bosco della Chabotterie è l’epilogo della disperata epopea.

....Il 23 marzo 1796, inseguito da parecchie colonne repubblicane, Charette non ha più con sè che 35 compagni, povero sciame, contro il quale s’accaniscono 500 soldati, a piedi od a cavallo, comandati dal generale Travot. Col manipolo fedele Charette s’inoltra nel bo-