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322 il buon cuore
dell’anima limpidamente, come stelle nel turchino del cielo; la spigliatezza pittorica del linguaggio vivace ed immediato, ne fanno un’opera psicologica e letteraria di vero valore; avvicinando qua e là, per sprazzi di luce, sfumature di colori, lampi di sorriso ed acutezza di bonomia, sui giudizi del mondo e degli avvenimenti umani, l’anima del grande Lecchese a quella di Alessandro Manzoni.

Le calunnie e le ingiustizie, avvelenate dalla passione e dai contrasti, rombarono su lui con suono cupo ed ira di turbine; ma l’anima, amareggiata e sdegnosa, non piegò un istante e rispose all’accanimento ed alle maledizioni dei nemici, colla forza magnifica del carattere; le parole dolenti dette all’amico nell’ora più angosciosa della solitudine e del vilipendio, sono lo sfogo umano di chi soffre, la ribellione naturale d’uno spirito retto ed acuto, che scruta con sicurezza ciò che per gli altri è ancora avvolto nella nebbia dell’ignoranza e della passione; sono l’invocazione accorata che ognuno di noi che abbia sofferto, ha lanciato nello scoraggiamento e nella prostrazione morale a chi sapeva comprenderci e confortarci; il nobile grido di rivolta contro ogni espressione di male ed anche contro le proprie angustie e debolezze. Tutte queste lettere, perciò, pur essendo l’eco fedele d’un periodo turbinoso per avvenimenti e dissensi filosofici, politici e religiosi nella nostra Patria e quindi pagine vige di storia, accolgono in sè il calore d’un dramma psicologico interessantissimo, senza finzioni ed impurità e sono il documento più prezioso per giudicare ed apprezzare l’anima d’uno dei migliori figli d’Italia. Le sue «peripezie d’animo — com’egli le chiama — le disillusioni, le battaglie» che, venendogli in ispecial modo da vecchi amici, lo addolorarono e sdegnarono maggiormente, ci rivelano, in maniera più compiuta ed in una luce di bellezza ideale lo spirito del grande Italiano, nella cui anima ardente, la verità della scienza, la purezza della religione, l’amore fervido per la patria si fusero in tale armonia meravigliosa che i suoi contemporanei, offuscati dal presente, non potevano comprendere, ma che noi dobbiamo ammirare intensamente.

Nella guerra mossa in questi tempi contro il Rosmini, ch’egli venerava, fu cavaliere leale e senza paura; le calunnie, gli assalti, lo scherno lo accompagnarono, sì, come ombre cupe; ma l’apostolo battagliero dell’idea non tremò, nè si ritrasse; egli pioniere di nuovi tempi, sentì la santità dell’opera e nessuna minaccia potè togliergli la tranquillità e l’impavida fermezza della coscienza e dell’azione. Oggi in cui la figura del grande filosofo di Rovereto s’eleva magnifica nella coscienza d’ogni italiano, l’eco della dolorosa guerra è fortunatamente spenta; ma non deve spegnersi quella della voce di Antonio Stoppani il quale vagheggiò ed amò il suo bel paese con anima di scienziato, di artista e di patriotta.

Nel 1848, durante i prodigi delle Cinque Giornate di Milano, egli convertì un dormitorio del Seminario in una fabbrica di palloni destinati a portare il fuoco dell’insurrezione fuori della città ai parroci ed alla
gente della campagna e prendeva parte, coi compagni all’episodio memorabile della eroica città. Più tardi partì, come volontario per l’assistenza dei feriti nella campagna del 1848; finchè nel 1853, al ritorno degli austriaci venne espulso dal Seminario di San Pietro Martire ove insegnava grammatica latina, ebbe preclusa dal Governo austriaco la via, non solo dell’insegnamento pubblico, ma anche di quello negli Istituti privati, sicchè dovette andare come precettore presso il conte Francesco Porro di Como, mentre, giovanissimo ancora, continuava, nelle ore libere, ad occuparsi con fervore sempre crescente delle ricerche e degli studi scientifici prediletti.

Nel 1859, allorchè gli austriaci furono finalmente scacciati dai nostri, egli potè ottenere, senza esami, dal Governo di Torino, l’autorizzazione all’insegnamento della storia naturale, mentre l’esultanza patriottica gli dettava un ispiratissimo inno sugli avvenimenti fortunati svoltisi dal 59 al 61: l’Addio all’armata francese. Nel 1866 interruppe opere e studi per seguire l’esercito italiano, nella guerra contro l’Austria nelle provincie venete e si arruolò nelle ambulanze milanesi sotto l’insegna della Croce Rossa e sempre s’adoprò per la grande opera dell’Italia stretta, nella sua unità indipendente, a Roma eterna; finchè nel 1876 fu sollecitato dai concittadini che lo veneravano, ad accettare il mandato di rappresentare il collegio di Lecco al Parlamento Nazionale.

Le ire dei nemici, le lettere di disapprovazione e le accuse di ambizione amareggiarono allora lo Stoppani, venerando per età, per dottrina, per carattere, per religione, per patriottismo; ma egli resistè nobilmente, risoluto a fare ad ogni costo quanto la coscienza giudicava lecito, nonostante il giudizio degli uomini. «Quando fossi certo d’essere giustificato davanti a Dio, affronterei tutto coraggiosamente nella speranza di bene per la Chiesa e per la Patria» confidava egli all’amico carissimo il 25 ottobre di quell’anno; ma il destino non volle e quattro giorni dopo egli scriveva ancora al Maggioni poche parole tristi: «Mi trovo qui a Milano quasi in esilio, venutoci ieri, dopo aver rinunciato alla mia candidatura. Tu già capisci il resto. Ho conosciuto un pezzo di mondo di più: ma anche questo pezzo l’ho trovato assai brutto e cangrenoso. Sono tranquillissimo, non avendo nulla da rimproverarmi in tutto questo scompiglio». Nelle ore dolorose l’amicizia, la purezza della coscienza, la fede e gli splendori della sua terra ne sostenevano lo spirito; per cui dopo brani tristissimi nei quali l’abbandono e lo smarrimento hanno accenti accorati d’angoscia, la poesia dell’anima, purificata dalla sofferenza, riapre le ali e s’innalza fervida ancora, ancora giovanile, fino a lambire le vette eccelse dei ghiacciai alpini ed a sciogliere, dopo il tocco rigeneratore, l’inno dell’entusiasmo alle bellezze d’Italia che gli erano note come a nessun altro. «Quante volte, nella solitudine della mia stanza, sento il richiamo a’ miei monti, e parmi di esser portato a volo su quelle cime! È un richiamo febbrile, tuna fantasia crudele, un fremito, una sensazione nervosa, indefinita che mi ammala. La nostalgia dev’es-