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228 IL BUON CUORE


IL DUCA DEL MONFERRATO


Con Maria Pia son scesi nel sepolcro tutti i cinque figli di Re Vittorio Emanuele e di Maria Adelaide arciduchessa d’Austria. Di Re Umberto, di Amedeo e delle due principesse teste defunte il pubblico ricorda la carriera e le doti; non così del priicipe Oddone ch’era il terzo genito dei figli maschi, nato in Torino l'11 luglio 1846, morto nel palazzo reale di Genova la notte del 21 al 22 gennaio 1866. Egli era religiosissimo di mente e di cuore; di costumi illibati: «quanto a pietà e carità cristiana — così un periodico dell’epoca (Civ. Catt. del 3 febbraio 1866) — continuava, può dirsi, a vivere in lui la sua madre Maria Adelaide». D’indole molto mite, d’ingegno perspicace, amantissimo dello studio, coltivando accuratamente le scienze e in ispecie le matematiche, appassionato per la marina in cui rivestiva il grado di ufficiale, favoriva a tutto potere le arti belle, era tutto carità per i poveri. Aveva divisato di fondare nella villa di Cornigliano una casa destinata ad accogliere, pei bagni di mare, gli scrofolosi indigenti. La gente sua lo chiamava a la gemma di casa Savoia a. Commoventissima è la pastorale con cui l’arcivescovo di Genova mons. Charvaz, ordinando pubblici suffragi, ne commentava le virtù cristiane esercitate, «in mezzo a gravi e lunghe opere che fecero della sua vita quasi intera un continuo martirio».

Nel libro, nel nostro giornale già sovente citato, del sacerdote conte Nicolis di Robilant, sulle memorie del canonico Gazelli, ex elemosiniere di corte, è detto del principe Oddone, che «erede del rachitismo dei Lorena, introdotto da Maria Teresa (la consorte di Carlo Alberto, nella casa di Savoia, era pure il principale erede delle virtù di Maria Adelaide; la scuola del dolore e la corrispondenza alla grazia aumentarono in lui le doti naturali, sì che sotto la guida del Gazelli salì ad altissima perfezione».

Re Vittorio amava il figlio gobbetto d’amore sviscerato. Morto, lo pianse a lungo. Ed a qualunque povero incontrasse per strada che nelle membra disgraziate ricordasse il figliolo prediletto, largiva elemosina generosa.

Anche la salma del principe Oddone riposa a Superga.

L’Eroe di S. Quintino


In quest’anno fatidico in cui il cuore d’ogni italiano esulta di una gioia comune, in cui il bel ciclo d’Italia vibra d’una stessa nota, in cui l’eco delle manifestazioni patriottiche echeggia per ogni dove... ho pensato di rammemorare alla mente dei cortesi lettori un personaggio che colla sua nobiltà d’intendimenti, di propositi, di saviezza, di consigli, forza di braccia, prodezza d’animo, seppe far sorgere in Piemonte una milizia che accresciuta dai suoi successori fu poi il fondamento della grandezza della gentile e magnanima dinastia di Savoia e del nazionale risorgimento.

L’alba dell’8 luglio 1528 fu salutata dai cittadini di Chambéry con cento colpi di cannone, mentre le campane suonavano a festa per il felice evento della nascita di Emanuele Filiberto primogenito del Duca Carlo III e della Principessa Beatrice di Portogallo.

Dal padre non ebbe in eredità, si può dire, altro che il nome di Principe, poichè tutti i suoi Stati ad eccezione di alcune città, erano in possesso degli stranieri. Di forme alquanto delicate, Emanuele Filiberto, aveva però uno spirito energico e guerriero, per cui venutegli presto a noia gli studi tranquilli ai quali veniva indirizzato, e vedendo in quali misere sorti versava il Piemonte e chiaramente comprendendo come le erano chiuse tutte le porte per potersi distinguere, abbandonò all’età di diciotto anni la patria per arruolarsi nell’esercito di Carlo V suo zio, dove ben presto si distinse, per le sue prodezze.

Con vera energia e prudenza diede opera a riordinare le sue schiere e ricondurre la disciplina nei soldati, ed in breve seppe cattivarsi l’animo di tutti quanti, nè i vecchi soldati di Carlo V sdegnavano di obbedire ai comandamenti di un generalissimo che da poco aveva trascorsi cinque lustri di vita.

Indi a poco, avendo la Spagna mossa guerra alla Francia, venne affidato al Sabaudo guerriero il comando di tutte le truppe raccolte nelle Fiandre, che formavano un poderoso esercito di 70.000 combattenti circa.

Dopo aver debellate parecchie città, Emanuele Filiberto poneva il campo davanti a S. Quintino per stringerla d’assedio, ma essendo corso il Contestabile Montmorency col fior fiore delle milizie francesi, ebbe luogo la celebre battaglia di S. Quintino, che per l’intrepido valore del Duca e per la somma sua valentia, animando le truppe col suo proverbiale coraggio, fruttò alle armi Spagnole la più splendida vittoria e al supremo comandante il titolo glorioso di Eroe di S. Quintino. Quella di Gravellino che le tenne subito dietro, indusse Arrigo II Re di Francia a conchiuder la pace e fu lo stesso Contestabile di Montmorency, prigioniero, che negoziò l’accordo e col trattato di Castel-Cambresy si stab lì che il vittorioso generale oltrechè andare in possesso di tutti i suoi aviti domini, impalmasse Margherita di Francia, dai poeti chiamata per le spiccate sue doti la più preziosa delle gemme e il più vago dei fiori.

La penna non può descrivere con quanta esultanza venisse accolto l’esule volontario che rientrava, mercè il valore del suo braccio, nel totale possesso dei suoi Stati.

Desolante era la pubblica miseria per le fami e le epidemie, squallide e deserte le campagne, grande la scissura degli animi, esausto l’erario, inaridite tutte le vene della pubblica e privata felicità. Ma l’eroe della sua età e il rifondatore della dinastia Sabauda, con insolita moderazione, rimise dentro alla guaina quella spada che aveva saputo usare con tanta temerarietà e si diede al riordinamento del suo paese colla stessa alacrità colla quale aveva condotto la guerra. Ebbe cura speciale negli ordinamenti militari ch’erano ai suoi occhi strumento di giustizia ed arra di pace, costituì la Camera dei Conti per le cose finanziarie, abolì gli ultimi avanzi della servitù, rendendo gli uomini padroni di sè stessi e delle loro fatiche, introdusse la coltivazione del gelso e l’arte della seta e volle che i suoi sudditi vestissero stoffe nazionali; fortificò la Savoia edificando la fortezza di Mommelliano, quindi le cittadelle di Torino, Vercelli e Mondovì.

Si spense serenamente all’età di 58 anni e venne sepolto nella chiesa metropolitana.

La bella città dai Romani chiamata Julia Augusta Taurinorum volle ricordare il valoroso Testa di Ferro erigendogli un superbo monumento in piazza S. Carlo. Il Duca armato, frenando un magnifico destriero, ripone la spada nel fodero: felice allusione alla pace e alla prosperità ridonata al paese.

Longhi Giovanni.


La NONNA è un capolavoro di una freschezza e di una originalità assoluta.