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IL BUON CUORE 101


cassetta privata dell’Imperatore. Nemmeno suo marito fu dimenticato. Poli era capo provvisorio d’un battaglione di cacciatori còrsi a Lamone ed il ministro della Guerra, Clarke, l’aveva nominato capitano. Napoleone ordinò che gli si desse il comando di una piazza secondaria, quello di Bonifacio. Ma Camilla Ilari, divenuta ambiziosa pei propri nipoti e persuasa oramai che la balia dell’Imperatore potesse esigere qualunque cosa, espresse il desiderio che Poli avesse il comando d’Aiaccio. Il ministro le rispose, amabilmente, che il posto non era vacante, e che, secondo i regolamenti, non poteva essere assegnato ad altri che ad un colonnello. La balia tornò alla carica e Napoleone le spedì un decreto, col quale Bernardo Poli, confermato col grado di capo di battaglione, veniva destinato al comando della piazza di Gavi.

Vennero i «Cento giorni» ed egli tentò di sollevar la Corsica. Con un pugno di soldati comparve davanti a Corte ed ordinò al comandante militare ed al sindaco di Bastia di inalberare il vessillo tricolore. E fu obbedito. Venne Waterloo, ma Poli rifiutò di deporre le armi. Per alimentare la resistenza, egli presta novantamila lire a Murat che gli dà i suoi diamanti in pegno e con l’aiuto dei più fervidi devoti di Napoleone popola di bande armate i boschi montani. Invano il marchese di Rivière cerca di snidarlo dalle sue posizioni. Poli, che i realisti chiamano il «capo dei napoleonici», l’«agente incorreggibile di Bonaparte»; Poli che il generale realista proclama semplicemente «brigante» si decide, dopo due anni, a sottomettersi. Ma, prima di firmar la pace, egli aveva ottenuto un’amnistia per sè e per tutti i suoi compagni. Per altro la fierezza del nipote di Camilla Ilari aveva confortato nell’esilio il prigioniero di Sant’Elena. «Voi solo — gli scriveva in suo nome il generale Bertrand — voi solo avete dato qualche minuto di gioia all’Imperatore. Egli non si stanca di leggere nei giornali inglesi i bollettini della vostra guerra».

Poli visse poi a lungo a Sani, fabbricando potassa e lavorando il sughero della foresta vicina....

Domenico Russo.


ONORANZE A GIUSEPPE CANDIANI


Nel pomeriggio di domenica, con grande concorso di cospicue rappresentanze, nel ridente parco annesso alla Casa dei Veterani in Turate, ebbe luogo la cerimonia inaugurale del monumento in memoria ed omaggio del combattente delle 5 Giornate, il volontario delle guerre per l’Indipendenza, il fondatore di una grande e nuova industria nazionale, l’ideatore di una casa di riposo per coloro che alla Patria diedero il loro sangue.

Da Milano, con un treno speciale si recarono a Turate, centinaia di persone con numerosi vessilli.

Ed alle ore 15,30, resa solenne per l’augusta presenza di S. A. S. il conte di Torino, rappresentante S. M. il Re, e dal concorso di un pubblico vario ed elegante, la cerimonia ebbe principio.

Intorno al monumento erano schierati, agli ordini del veterano tenente cav. Galli, gli ospiti della Casa Umberto I. E insieme ai volontari dell’Indipendenza prestavano servizio d’onore — simpatico contrasto — i volontari studenti agli ordini del tenente Lanzi e dei sottotenenti Mazzucchelli e Fuoco. La banda dei «martinitt», gentilmente concessa e quella di Turate alterternavano la Marcia Reale e gli inni patriottici.

Al tavolo d’onore era S. A. R. il conte di Torino col comm. avv. Bassano Gabba, presidente del Comitato per le onoranze a Giuseppe Candiani ed il generale Alberto Gabba, presidente della Casa di Turate.

Scoperto il monumento — opera del Barcaglia — l’on. avv. Bassano Gabba, reso omaggio al Conte di Torino, lumeggiò con eloquente parola la figura di Giuseppe Candiani, enumerando le di lui principali benemerenze nei fasti dell’italico risorgimento, nel campo dell’industria italiana e in quello della beneficenza.

La famiglia del rimpianto defunto, interpretando il di lui sentimento, espresse la sua riconoscenza coll’elargizione di venticinquemila lire a favore della Casa di Turate.

ORGOGLIO NOBILIARE



Deh, deponete, o nobili, l’orgoglio:
Il nascer cavalier poco rileva,
Chè figli tutti siam d’Adamo ed Eva.


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Che importa che scendiam da questi, o quelli?
Quello che importa è l’esser galantuomo;
Io mi rido di certi scioccherelli
Che han sempre in bocca: io sono un gentiluomo:
Si credon tanti Cesari e Camilli,
Ed in zucca non hanno altro che grilli.

(Dal «Cicerone», c. IV).




VANITA’ DEI NOMI



I nomi non son quei che alle persone
Possano fare onore o disonore;
E sono degni di compassione
Quei che credono farsi un bell’onore
Cambiando il nome lor basso e plebeo
Con quel d’Epaminonda, o di Pompeo.


E ridicoli sono ancor que’ padri
Di bassa estrazione, allora quando
A’ figli loro credono che quadri
Il nome di Rinaldo oppur d’Orlando;
Per vanità di padri e delle madri
Chiamasi Augusto, Cesare o Fernando
Più d’uno, a cui si vede a prima vista
Che staria bene il nome di Batista.

(Dal «Cicerone», c. IV).