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28 IL BUON CUORE


che ai meno placati collezionisti di storie e di episodi ricordabili a scadenza fissa. Bastano venticinque anni, si sa, per spolverare al pubblico un qualunque paio di stivali calzati in un qualunque giorno fatale da un qualsiasi eroe; ne bastano anche dieci — tariffa minima — per ricordare ai molto scusabili figli dimentichi la caduta di un ministero celebre o la nazionalistica gloriola di qualche mezza conquista coloniale; ma alla conversione di Alessandro Manzoni non bastano neanche cent’anni. Ed è bene che sia così: certo l’insistente silenzio deve raggiungere ben grato lo spirito vivo e vigile del grande scomparso pensoso; egli che della sua conversione non aveva fatto argomento di facili esibizioni autobiografiche, nè, tanto meno, d’intelligenti combinazioni editoriali. La pubblicazione della Morale cattolica, che svelava dopo nove anni, nel limpido e polito impersonalismo di una serena, nobilissima polemica d’idee, il lento e profondo travaglio onde tutta l’anima sua aveva proceduto, trasalendo, verso la verità, non suscitò i deliri entusiastici che avevano commosso, diecisette anni prima, i parigini del Consolato, quando l’attesa fervida dei primi esemplari del Génie du Christianisme, non aveva fatto ritrovare i facili sonni neanche alle cortesi dame di Parigi.

Sembra, anzi, che il fervore incandescente di rinnovata pietà cristiana che nel visconte di Chateaubriand, riconobbe il polito cantore, e nella Francia, il paese eletto e predestinato, come la terra che aveva tremato al rombo ammonitore della Rivoluzione e che rinverdiva i suoi allori secolari sulla trionfale via napoleonica, sembra che il fulgore acceso di tanta appassionata rinascita non suscitasse docili echi d’entusiasmo nella forte anima giovinetta di Alessandro Manzoni. A quel risveglio di spiriti stanchi ed ancora così pavidamente assonnati, a quell’aurora molle di tutte le tenerezze e velata di tutte le tristezze — le tenerezze, le tristezze di una pazza orgia d’orgoglio sognata e in un attimo solo di terrore, irreparabilmente spezzata — il poeta nostro ancora fanciullo, sembrò rispondere, squillando, l’inno antico del trionfo auspicato, il trionfo della Libertà: inno di grande sincerità, nelle stesse incertezze della sua poesia non ancora compiutamente matura, inno sopratutto, di grande probità ideale. Perchè sta a segnare, esso, nè più nè meno che le vie di Dio; le vie che la luce della fede avrebbe appianate e battute nel cuore di Alessandro Manzoni. Egli, cioè, non avrebbe trasalito all’appello divino come ad un pietoso annuncio di pace e di oblìo; non avrebbe portato un’anima affaticata, dolente, spaurita, ancora, da visioni di morte, capace più che di pensare e di parlare, di piangere, di cantare, di sognare: quasi che tutta l’anima, dopo l’orgia, si fosse raccolta nel cuore e negli occhi e non premesse che il cuore, e non premesse che gli occhi, raddoppiando palpiti, sciogliendo lagrime, atteggiando, imperlati di lagrime, profili nuovi di bellezze fatate.

Perchè questa religion du coeur, bandita dal maestro di Atala, doveva apparire a spiriti più pienamente capaci ed agenti, come una morbosa ipertrofia del cuore, una squisita fattura di tenerezza — il Génie era stato scritto «coll’ardore di un figlio che innalza un
monumento alla madre sua» colei che l’aveva ricondotto, piangendo, alla fede — nella quale però la pietà e la bellezza morivano a poco a poco, venendo meno loro l’alimento ideale, non sapendo ritrovare esse il prodigio di una parola, la luce di un pensiero, non potendo farsi sangue e tramutata in energia: non fruttificando opere di fede, ma disegnando, appena, fantasmi.

Quei pavidi risvegliati, è vero, non potevano, forse, dare di più; il visconte di Chateaubriand doveva scrivere, dopo il Génie, le pagine non tutte nobilmente gloriose della sua vita politica, doveva dividere il cuore, donde pure era «uscita la sua fede» in troppi e troppo effimeri affetti; ma Alessandro Manzoni giovine e già virile nella solida struttura italica del suo genio, poteva doveva dare di più: e dalla conversione di Francesco Renato di Chateaubriand alla sua, dovevano passare otto anni di chiuso e ben custodito fervore.

Intanto, egli aveva cantato il Trionfo della libertà, rinfrescando l’autentica ortodossia giacobina, l’utopia bianca della definitiva soppressione dell’Ignoranza e della Superstizione, sotto la facile vittoria del vindice trinomio rivoluzionario e delle indefinite energie di bontà e di progresso raccolte sulla vituperata anima umana.

L’esperimento rivoluzionario non lo aveva disilluso, nè le inattese tirannidi della folla lo avevano sollecitato ad invocare pavidamente le provvidenze della rinascente reazione coronata: egli non trema; è ancora dopo l’89 a quindici anni, un sereno ottimista della rivoluzione; non trema, cioè, pensa; non piange, confida; non cerca oblii pietosi, ma vede, contempla, ascolta, medita

Sentire e meditar.....

Ecco tracciate nel poemetto giacobino e deista le vie del ritorno alla fede, le chiavi auree del dramma interiore. Perchè, sotto il deismo manzoniano palpitava una profonda anima di bontà e di probità ideale: nonostante le tristezze della sua vita familiare e le asprezze, talvolta ingrate, della sua vita di collegio, la giovinezza di Alessandro Manzoni, aveva ritemprato alle sicure fonti dell’educazione religiosa, le native attitudini al bene: tanto che alcuni critici hanno creduto di vedere attenuata, per questo, la drammaticità viva della sua conversione, quasi che conversione propriamente detta non s’avesse a rinvenire in chi sempre s’era serbato onesto e disposto a riguardare al bene:

.....da la meta mai
non volger gli occhi....   
e che quindi, il suo ritorno alla fede non fosse un episodio fondamentale, in modo assoluto, capace di suscitare e di dare una sua propria originale significazione, a tutta la vita del suo spirito, a tutta l’anima eloquente dell’arte sua, a tutto il suo incomparabile magistero di fede e di italianità. Ma la caratteristica, della conversione di Alessandro Manzoni, quella che ne esprime, anzi, tutta la sua incalcolabile drammaticità, sta proprio nel fatto che il poeta della libertà trionfante non portava, nel giovine petto, un’anima attraversata già d’insistenti malizie ed abbeverata di precoci abiezioni; ma un’anima, amante della luce e già, di una mite luce