Pagina:Il buon cuore - Anno X, n. 03 - 14 gennaio 1911.pdf/5


IL BUON CUORE 21


Ma la vittima doveva essere veramente immolata. Cristo, non fu mai tanto nostra preghiera, come quando morì sulla croce poichè fu più propriamente di là che venne la redenzione.

Era il 1584. S. Carlo aveva fatto i suoi esercizi spirituali in una cella sul monte sacro di Varano; la sua pietà ve l’aveva tenuto per otto giorni nelle più belle contemplazioni, come la sua austerità nella più dura penitenza; vi aveva fatto la sua confessione generale sentendo vicina la fine de’ suoi giorni; vi si era anche ammalato e di là era stato trasportato a Milano. Si era vicini al novembre, a questa stagìone così mesta e così piena di richiami per il cielo, con le sue foglie ingiallite che cadono, co’ suoi pallidi tramonti velati di nebbia, come cadono dai rami della nostra vita le disillusioni come si vela per sconforto il cuore. Il lago aveva sentito scivolar via la barca che portava il santo, quasi incamminata a lidi eterni, il Duomo l’aveva visto passare in lettiga affranto come un soldato ferito a morte in battaglia e presso a morire sotto la sua tenda.

Il corpo del santo ormai non reggeva più all’ardore dell’anima; s’era fatto un velo troppo esile, la penitenza che aveva preparato l’olocausto del corpo, aspettava l’ultima preghiera dell’anima per vibrare il colpo e formare la vittima.

La camera del santo, ormai non era che una chiesa con due altari: quello dell’Eucaristia che egli aveva voluto erigere, e il suo giaciglio su cui egli moriva, se pure tutti e due non erano che un altare solo.

Aveva voluto il santo un’immagine grande in quadro di Gesù agonizzante nell’orto, e un’altra di Gesù morto deposto dalla croce. Non potendo più parlare, egli vi dava sguardi infuocati. Faceva l’ultima preghiera. Al lume di una lampada lo si vide reclinare il capo, quietamente morire. Erano le tre ore di notte del tre novembre 1584. S. Carlo era vissuto nella preghiera 46 anni, un mese e un giorno.

Sul cereo suo volto rimase quella linea che forse abbiamo ritratto. L’anima santa che ve l’aveva solcata continua a pregare per noi nel cielo.

E noi, curvi sulla sua tomba gloriosa a pensare, impariamo e speriamo.




La NONNA è un capolavoro di una freschezza di una originalità assoluta.




LA MORALITÀ NEL TEATRO

Stavamo per esprimere l’indignazione suscitata in molte anime oneste dall’indecente Cleopatra, inqualificabile ballo che si è dato e si continua a dare al Teatro della Scala, quando ci giunse in buon punto la protesta inviata ad alcuni giornali cittadini dal nob. avv. Pier Emilio De Francisci, solerte membro del Consiglio per la Moralità Pubblica.

Facciamo nostro il grido dell’egregio avvocato, che
ha trovato accoglienza soltanto nell’Unione, avendo gli altri giornali preferito il silenzio, forse per non turbare il successo industriale dello spettacolo inverecondo. Noi siamo ingenui come il giovane avv. De Francisci; ma siamo sicuri d’interpretare il sentimento di mc Iti timidi, che non osano opporsi a ciò che si fa per convenzionalismo ed anche per assecondare il gusto corrotto nel teatro, come pur troppo si fa per la stampa.

«Milano, li 7 gennaio 1911.

«Egregio signor direttore,

«Le sarei vivamente grato, se l’ottimo suo giornale volesse accogliere queste poche righe di protesta e di indignazione per le belle novità introdotte nel nostro maggior teatro col cosidetto ballo di Cleopatra. So che le mie parole susciteranno da parte di alcuni un riso, quasi di compassione, per la mia dabbenaggine, ma io a certe risa rispondo con una scrollatina di spalle, il che non esclude che io possa anche essere un ingenuo. Ma, appunto per questo, io mi domando, se proprio oggi, in cui il presidente del Consiglio dei ministri si dà tanta e lodevole pena per combattere la pornografia, debba essere permessa, sul palcoscenico della Scala, questa rappresentazione sfacciata del più volgare erotismo. Io domando, perchè debba usarsi, col povero, forse analfabeta rivenditore di giornali, che viene processato per la vendita di uno stampato, il cui contenuto gli è sicuramente ignoto, una misura diversa da quella applicata a chi ha la bontà di offrire al pubblico queste esibizioni di lascivia, che si vogliono gabellare quali innovazioni geniali, frutto di nuove concezioni estetich2. E domando ancora, per quale privilegio debba essere possibile alla Scala uno spettacolo, che, probabilmente, la prefettura e l’autorità di P. S. avrebbero vietato, se avesse costituito solamente un numero di un qualsiasi caffè-concerto.

Del lesto io so che la maggior parte del pubblico è stata ed è del mio parere, e ha, timidamente, come suole la gente dabbene, disapprovato. Pochi gli applausi, che non era difficile scorgere da qual parte venissero. Nè io voglio discutete sul valore di questo preteso rinnovamento dell’arte della danza: osservo solamente che il nome di arte è usato molto impropriamente, ove essa si limiti ad esprimere le manifestazioni più basse della bestialità umana ed ove risvegli unicamente gli entusiasmi di giovani decadenti infrolliti e di certi vecchi, che trovano nello spettacolo un surrogato agli usati eccitanti. Io non credo che la Scala, questa istituzione cittadina della quale vogliamo andare orgogliosi, debba assumere questa nuova funzione: tuttavia potrei anche sbagliarmi, perchè forse io sono un ingenuo.

«Mi perdoni, egregio direttore, questo sfogo sincero e mi creda

«il suo P. De Francisci




Ricordatevi di comperare il 24.mo fascicolo dell’ENCICLOPEDIA DEI RAGAZZI che uscì nella scorsa settimana.