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IL BUON CUORE 3


furono bersaglio dei nostri colpi — sentiamo il bisogno di dire ai nostri più accaniti nemici, personali e politici: qua la mano: Dimentichiamo — almeno, per un’ora — il dissenso e la lotta, come gli esploratori del polo, diversi di nazione, dimenticano, nelle solitudini ghiacciate, i colori della loro bandiera e si stringono la mano. Dimentichiamolo, sopratutto, in memoria del Giusto, che spirando, il primo anelito, ha portato, al mondo, il più grande grido d’amore — che, spirando l’ultimo cordoglio, vi ha lasciato il più grande anelito di giustizia e di pietà.

Perchè sentiamo, in cuore, questo bisogno di pace, che è gonfio di emozione, e quasi di pianto? Oh! il perchè è facile, troppo facile: perchè la vita è breve, perchè la terra è piena di fiori e di lagrime, perchè l’amore è grande e l’odio è infecondo, perchè, se ci occorrono per la vita, il pane e il tetto, siamo assetati — sempre più assettati — di ideale.

Narra una leggenda araba, che un pellegrino del deserto, oppresso dalla stanchezza e dalla sete, vide, a un certo punto, tremolare sulla sabbia infuocata, un che di lucente, e ne provò un sussulto di gioia, pensando che fosse, quel bagliore, il gorgoglio di una sorgente, in cui spegnere l’ardentissima sete: si avvicinò, con gioia: ma, ad un tratto, la gioia si mutò in tristezza, il desiderio in terrore: l’arabo levò le mani al cielo, desolatamente: non era una vena d’acqua, quella. Era una perla!

Così è la vita: anche la vita più blandita dagli agi e dalla felicità esteriore, senza il sorriso dell’ideale: essa è un deserto, in cui può trovarsi la perla — e solo per pochi privilegiati ma non, il ristoro materno della sorgente che conforta alle battaglie, non il balsamo che lenisce le tante ferite.

La vita senza ideale, è — per rubare una imagine deliziosa al Coppèe — un focolare a cui manchino il sorriso e i capelli biondi della giovane sposa — il sorriso ed i capelli d’argento della vecchia madre: è un diadema di gloria, a cui manchi un sorriso d’amore, sia pure lontano: fiorisca pure, come dice il poeta straniero, «chi sa con quale splendore strano nel mondo promesso, che occhio mortale non vide.»

L’articolo di Natale mi ha portato lontano, forse, troppo lontano: io non ho saputo, forse, sottrarmi, alla nostalgia dei lontani inverni, evocata, qualche giorno fa, con tanta suggestiva malia di parola, dal Giorgeri-Contri, sulle colonne del Momento.

Mi consola, peraltro, il riflesso che il mio articolo è riuscito, esso stesso, una prova del mio assunto: il Natale ha compiuto un-miracolo: il conte Lao ha dimenticato di essere beffardo, per essere solo sentimentale.

Concedi quindi, o amico che leggi, alla sua piccola voce, che ha tentato molte corde, di morire, contenta di sè, nel silenzio: ma non senza che ti giunga, o lettore ignoto, il saluto augurale di questo ignoto, che ti parla e ti guarda.

Il conte Lao.


LA PALMA D’EGITTO



Lontano, in un deserto dell’Oriente cresceva da molti e molti anni una palma; era divenuta alta e assai vecchia.

Tutti coloro che attraversavano il deserto, si fermavano ad osservarla: superava in altezza tutte le altre palme, e si soleva dire che avrebbe sorpassato gli obelischi e le piramidi.

Un giorno, mentre la gran palma se ne stava solitaria guardando dinanzi, vide qualcosa che fece scuotere dallo stupore il suo diadema di foglie. Dall’estremo limite del deserto venivano due persone. Viste di lontano, sul cammello parevano due formiche, ma in realtà erano persone. Anzi la palma che ben conosceva i viaggiatori del deserto, riconobbe nei due pellegrini un uomo e una donna privi di guide, di animali da soma, di tende e di otri con acqua.

«In verità questi due son venuti qui per morire» pensò la palma, e gettò rapide occhiate attorno a sè.

«Mi meraviglio» seguitò «che i leoni non siano già al loro posto per dar caccia a questa preda. Non ne scorgo pur uno, e non riesco nemmeno a vedere uno dei ladroni del deserto.

Ma verranno certamente. Sette diverse morti son tese a questi sventurati: i leoni possono divorarli, i serpenti morderli, la sete ucciderli, le sabbie del deserto seppellirli, i ladroni assalirli, l’ardore del sole esaurirli, la paura annientarli.»

La palma tentò di pensare a qualche altra cosa, perchè la sorte che attendeva quei due la rattristava. Ma nell’ampia distesa del deserto essa non trovò nulla che da migliaia e migliaia d’anni non avesse osservato e che non le fosse noto, nulla che potesse fermare la sua attenzione, dovette pensare ai due viandanti.

«Per la siccità e per la tempesta!» esclamò la palma invocando i due nemici più temibili del deserto «che cosa tiene tra le braccia questa donna? Ritengo che questi due pazzi portino seco un fanciullo.»

L’albero che vedeva da lungi come sogliono i vecchi, vedeva giusto.

La donna teneva in collo un fanciullo che dormiva appoggiando il capo sulla spalla di lei.

«Il bimbo non è interamente vestito» seguitò a dire la palma a la madre lo copre con un lembo del suo mantello. Essa deve averlo tolto dal letto in gran fretta per fuggire. Ora capisco tutto: questi sono dei fuggitivi.

Comunque sia essi mi sembrano pazzi. Se un angelo non li protegge avrebbero dovuto sopportare il peggior male dai loro nemici anzichè venire in questo deserto.

Credo di comprendere come sono andate le cose: l’uomo lavorava, il bimbo dormiva nella culla, la donna era uscita ad attingere l’acqua. Fatti due passi fuor della porta ha veduto i nemici venire precipitosamente. Essa ha indietreggiato, ha afferrato il bimbo, chiamato l’uomo, dicendogli di seguirla e per tutto il giorno sono