Pagina:Il buon cuore - Anno IX, n. 41 - 8 ottobre 1910.pdf/6

326 IL BUON CUORE


l’aria e si mise a strisciare come un serpente verso la parte dove era caduto il cavallo.

Quivi giunta si rizzò in piedi, come, aveva fatto quello, contro l’inferriata fiutando e mordendo i cancelli toccati dal cavallo; quindi ruggì dolcemente interrogando il ferro, la sabbia e l’aria sulla preda assente. Allora esalazioni di sangue tiepido giunsero fino a lei, perchè questa volta gli schiavi non eransi presa la pena di purgare la sabbia; essa marciò dritto all’albero contro il quale era avvenuta la lotta fra Sila e il leone, non piegando a sinistra o a destra che per raccogliere i pezzi di carne fatti volar intorno a sè dal nobile animale che l’aveva preceduta nel Circo. Da ultimo arrivò a una pozza di sangue non ancora, assorbito dalla sabbia, e si mise a bere come un cane assetato; poi guardò di nuovo intorno a sè con due occhi scintillanti di lince, e fu allora che scoprì Atta la quale legata all’albero e ad occhi chiusi attendeva la morte senza osar di guardarla a venire.

La tigre pertanto si accosciò col ventre a terra serpeggiando in senso obliquo alla sua vittima, ma senza perderla di vista; arrivatale a distanza di dieci passi, si rialzò, fiutò, il collo teso e le nari aperte, l’aria che veniva da quella. Quindi d’un unico salto sorpassando lo spazio che la divideva ancora dalla giovane cristiana, cadde ai suoi piedi; e allorchè tutto l’anfiteatro, aspettandosi di vederla fatta a brani, gettava un grido di terrore in cui appariva tutto l’interesse inspirato dalla giovane a’ suoi spettatori venuti per battere le mani alla sua morte, la tigre si accovacciò dolce e calma, mandando flebili grida di gioia e leccando i piedi della sua antica padrona. A tali carezze inattese, Atta stupita aprì gli occhi e riconobbe Febo, la tigre da lei allevata.

Subito le grida di «Grazia! Grazia!» risuonarono da tutte le parti; avendo la moltitudine creduto un prodigio la riconoscenza della tigre per la giovane. Del resto Atta aveva subite le tre prove richieste e giacchè salva, restava pure in libertà. Allora lo spirito mutabile degli spettatori si convertì, per una transazione sì naturale al popolo, da spirito di estrema crudeltà in quello di estrema clemenza. I giovani cavalieri gettarono le loro catene d’oro, le donne le loro corone di fiori. Tutti alzaronsi sui gradini, chiamando gli schiavi perchè andassero a slegare la vittima. A tali grida Libico, il nero guardiano di Febo, entrò e con un ferro tagliò i legami della giovane che cadde subito sulle sue ginocchia, perchè quei legami erano l’unico sostegno che tenevano in piedi il corpo di lei sfinito dal terrore. Ma Libico la rialzò e confortando il suo passo la condusse accompagnata da Febo che la seguiva come un cane verso la porta chiamata — Sana Vivaria — essendochè da questa porta escivano i gladiatori, i lottatori che combattevano colle bestie e i condannati salvi dalla carneficina.

Alla vista di lei, la folla applaudì e volle portarla in trionfo; ma Atta giungeva le mani supplicando e il popolo si schierò in due ale innanzi a lei lasciandole il passo libero. Dopo andò al tempio di Diana, s’assise dietro una colonna del peristiglio e vi restò a piangere

disperata; perchè lamentavasi di non esser morta allora e di vedersi sola al mondo, senza padre, senza protettore, senza amico; il padre erasi perduto per causa sua, S. Paolo e Sila erano caduti martiri.

Allorchè tornò la notte, si risovvenne che rimanevale una famiglia; quindi prese sola e in silenzio il cammino delle Catacombe.

La sera l’anfiteatro si riaprì di nuovo; l’imperatore riprese il suo posto sul trono rimasto sgombro parte del giorno, e gli spettacoli ricominciarono; indi allorchè discese la notte, Nerone si ricordò della promessa fatta al popolo di dargli a vedere una caccia a luce di fiaccole; furono legati a dodici pali di ferro dodici cristiani coperti di zolfo e resina cui misero fuoco; poi furono fatti discendere nel circo altri leoni ed altri gladiatori.

Traduzione di L. Meregalli.

Benedizione materna


Da’ tuoi lontana, sotto estranio cielo,
fra monti sconosciuti e genti nove,
se mai più intenso il gelo
e il silenzio del verno in cor ti move
inejfabil mestizia,
oh di conforto pur ti sia cagione
del cor materno la benedizione!


Le lotte della vita, tu nol sai,
son molte e dure in questo mondo infido
sempre lagrime e guai...
la mamma tua t’ha svelto dal tuo nido
onde più franca e fulgida
tu percorra il tuo cielo e ti dà sprone
con la materna sua benedizione.


Ella sempre ti sente nel suo core,
ti vede e segue dal mattino a sera,
di te parla al Signore
disfokando l’amor nella preghiera
e se nei sogni l’agita
fiero timor, scongiura la tenzone
mandandoti la sua benedizione.


Oh di che gaudio allora tu l’allieti,
povera mamma, quando tu le scrivi
che ne’ tuoi consueti
alterni studi tu contenta vivi,
che il voler ti sollecita
d’esser miglior, come il dover t’impone!
Mira a tal fin la sua benedizione.


Ma dopo il verno vien la primavera,
eppoi, eppoi l’autunno co’ suoi frutti...
Oh per gran merlo altera
noi ti riavrem festante, e più che tutti
beata del tuo plauso
la tua mamma con più viva espressione
ti ridarà la sua benedizione!