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IL BUON CUORE 215


esasperante all’estremo di tutte quelle voci femminili, si discorreva animatamente sul tema prediletto, facendo una rassegna accurata dei probabili sposi.

Gettato là fra altri anche il nome dell’avvocatino Mario Flori, mentre nessuna trovò da ridirci, lei sola, la sposina mancata, si permise di fare delle eccezioni; e che per conto suo non lo avrebbe desiderato con soverchio calore; e che già, uno che bazzica spesso per Chiese, deve essere un povero di spirito, privo di sentimentalità, di romanticismo, un marito insipido. E altre volte, sbottonandosi sull’argomento della vita coniugale, non mancò di esporre ripetutamente le sue personali teorie d’un’arditezza per lo meno sconcertante; che avrebbe abolito qualunque controllo del marito sulle sue letture, sulla corrispondenza, sulle amicizie, sulla condotta religiosa, sui divertimenti; per lei il matrimonio essere una società avente un minimo di obblighi e un massimo di libertà, essere in certo senso un’emancipazione in confronto allo stato di figlia di famiglia; e, dopo tutto, uno stato in cui si deve cogliere piaceri, fiori, gioie, lasciando i volgari doveri, la prosa agli imbecilli; sè essere avida di cose nuove, di emozioni forti, acri, di casi stravaganti, di vita eccentrica.

Mario Flori, d’una serietà a tutta prova, profondamente religioso e praticante, e positivo e pratico quanto ce ne stava, e con una bona dose di senso di dignità e d’amor proprio anche, non poteva, non doveva legare i suoi destini con una fanciulla simile, e la sua risoluzione fu pronta a tradurla in pratica anche in contrasto coi bei piani di suo padre e col rischio della collera e della vendetta di lui.

La mamma per quanto ambiziosa e fiera, in fondo era molto buona; più, aveva un debole per Mario, tanto da prenderne le difese più d’una volta, tanto da preferirlo anche alla figlia Carola che pure era l’angelo della casa. E la contessa Flavia Brunelleschi si rassegnò presto e perdonò e si rimise subito in rapporto col figlio mediante lettere, o a mezzo di Carola, e qualche volta passando lei stessa all’abitazione degli sposini che non era molto lontano dalla sua.

Ma l’architetto Eugenio Flori non era uomo da dimenticare, da perdonare, almeno così facilmente e così presto. Il presunto affronto era stato ricevuto senza escandescenze e scoppi di sdegno; ma appunto per quel contegno senza sfoghi clamorosi, si dovette constatare di maggior durata il cruccio, più calcolato e freddo il mutismo, più ostinata la volontà nel negare il perdono, nel fare la pace. Certo non mancarono dei passi nel senso di disarmare una bona volta quel cuore così gonfio di rancore. La contessa si azzardò più volte di entrare in argomento benchè sempre pregata a non insistere; e Carola, valendosi d’una impunità tutta sua, quante volte con una libertà biricchina non aggredì suo padre, e investendolo con tutta l’arte di un vero assalto, non fu lì lì per far capitolare l’ostinata fortezza!

Mario dal canto suo non lasciò passare nessuna occasione per implorare senza compromettere la sua dignità il perdono del padre. E fu solo quando proprio più nulla restava a sperare che, con dolore sempre, si rassegnò al suo castigo. Tuttavia la perdita era in parte

compensata oltre ogni speranza dalle soddisfazioni che trovava nella nuova casa.

Ogni giorno che passava, scopriva nuovi lati di raffinatezza, nuove forme di bontà, nuovi tesori di squisita gentilezza nella sposa sua; e si convinceva sempre più che il loro era stato un matrimonio di anime. Chiuse le sue giornate di immane lavoro allo studio che aveva in comune con altri due colleghi, oppresso dalla fatica sostenuta nel Foro, e non poco anche dallo spettacolo incessante di conflitti, di passioni, scene di brutalità, di volgarità, di brutture, di vergogne, che la sua professione gli gettava necessariamente sott’occhio, era bello per lui metter piede nel suo bel quartierino, così lindo e civettuolo e tutto un profumo di pace e di purezza, tutto gaio di luce festosa, pieno di inviti e di seduzione, dove lo spirito si tuffava come in un bagno ristoratore e ritemprava le spossate energie. A mezzodì era fissata la colazione, e il pranzo alle venti; e durante i pasti, ma specialmente dopo pranzo, la conversazione fluiva spontanea, abbondante, piena di confidente abbandono, briosa, appassionata, interessantissima, su mille cose di arte, di letteratura, della cronaca della giornata, di religione, di memorie degli anni trascorsi ciascuno nella propria casa o nei rispettivi collegi.

Silvia Albani, malgrado la non elevatissima condizione sociale da cui veniva, non era però una figlia del popolo; per tempo era stata messa in educazione in un Collegio diretto da Suore, forse il più aristocratico di Milano, dove si distinse sempre per la sua passione allo studio e alle belle arti, con una riuscita non comune. E restituitasi nella casa paterna verso i suoi diciotto anni compiuti, si tenne sempre al corrente di tutto il movimento letterario ed artistico, sia colla lettura di periodici e giornali di tal genere, sia visitando pinacoteche, assistendo a conferenze o mettendosi in relazione con persone note per la loro profonda coltura.

D’una memoria eccezionale, d’un gusto senza confronto, e affascinante parlatrice per natura, si può immaginare come dovesse intrattenere la conversazione con Mario Flori esso pure istruitissimo in questi rami del sapere. Il quale ad arte provocava discussioni animate perchè l’animo suo potesse cullarsi dilettuosamente, con una spirituale voluttà in quei regni fantasiosi della poesia e del genio dell’arte, che Silvia magistralmente rievocava, dipingendoli coi più smaglianti colori.

Alla domenica c’erano parecchie visite da fare o ricevere. Talvolta veniva la contessa Flavia, sempre regolarmente al ritorno dalla Messa veniva Carola a portare o prendere notizie. Questa fanciulla col suo apparire portava in casa una nota di gioia e di sorriso di più; sempre vivace, di bon umore, lepida, irraggiava la bella luce delle sue pupille scintillanti e del suo volto luminoso e sorridente, e diffondeva un brio indiavolato ovunque. Era la sua felice natura che rendevala così doppiamente preziosa e nella casa paterna e dovunque mettesse piede.

(Continua).



La NONNA è un capolavoro di una freschezza di una originalità assoluta.