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IL BUON CUORE 117


in essa v’ha di migliore! Intenta a martirizzare i suoi eroi! Giunta fino a crocifiggere Gesù!....

Ma i martiri, ma il martire per eccellenza, sono vittime per quelli che poi li riconoscono e il loro martirio è fonte di bene alla società che li ha confitti in croce!

È riparazione tarda la venerazione che si volge alle tombe gloriose dei grandi, dei santi,.... ma non è riparazione vana: essa dice un’ascensione verso il bene, verso il vero..... Per questa ascensione i martiri certo esultano al di là della tomba, al di là della morte!

Il Cristianesimo in quanto religione non poteva essere senza sacrificio, perchè religione senza sacrificio è inconcepibile, come è inconcepibile religione senza preghiera.

La preghiera (la preghiera ideale insegnata e praticata da Gesù e da’ suoi santi) attrae a sè la divinità.

Il sacrificio porta l’uomo in Dio.

Ma il cristianesimo ha come vittima del sacrificio il suo stesso fondatore.

Pensiamo bene a tutte le conseguenze pratiche di questo fatto.

Il Cristiano non può onorare Iddio in altro modo che col diventare egli stesso olocausto alla divinità come Gesù Cristo.

Rammentiamolo, quando pare si sia tentati di credere che basti offrire a Dio le cose nostre, serbando a noi noi stessi!

Già i profeti d’Israele ammonivano che Dio non si beava di sacrifici, ma solo dei cuori mondi e puri; l’insegnamento profetico è ripetuto, e quanto più efficacemente, a noi cristiani dal Maestro nostro divino, pendente dalla croce.

È con il cuor nostro scevro d’ogni bruttura, pronto a tutto per la verità e per il bene, cioè per Dio, che noi possiamo rendergli onore degno!

Il sacrificio di Gesù al Padre fu sacrificio razionale, perchè consistette in un atto sublime di obbedienza: factus obbediens usque ad mortem.

Un simile sacrificio annullava quelli di animali e di cose visibili che per sè non hanno alcun valore: Rimane, dopo la morte di Gesù, un solo sacrificio accetto: compiere la volontà del Padre!

Questo completa il precedente punto della nostra meditazione: Noi dobbiamo offrir noi stessi al Padre e l’offerta nostra sarà piena, degna, accetta, quando noi compiremo la volontà del Padre. Noi dobbiamo compiere il volere di Dio, attuare i suoi disegni sopra di noi. Unica nostra preoccupazione, se noi siam cristiani, religiosi per davvero, non dovrebbe essere che quella di conoscere questa volontà.

Iddio vuole il vero, il bene... questo da tutti. Ma che vuole in particolare da noi?

Dalle circostanze esteriori noi vedremo la volontà del Signore: in ogni contingenza, ascoltando e seguendo il suggerimento che ci spinge alla bontà, noi attueremo il volere divino.

Quante volte, volendo fare così, noi ce ne dovremo rimanere umili e sereni e calmi fra le amarezze più crude; noi dovremo portare la croce, amando sempre le persone che con la loro incomprensione, con il loro contegno, ce la spingon ognor più dentro nel cuore; quante volte per seguire la voce divina, bisognerà vincere noi stessi, costringerci, fino quasi ad annientarci...

Eppure solo così noi compiremo la volontà del Padre; — solo così arriveremo alla piena unione con Dio, di conseguenza alla nostra felicità...: felicità austera, ma ineffabile, ma grande; — quella felicità che faceva esclamare all’Apostolo: Io sovrabbondo di gaudio in ogni mia tribolazione!

Don MICHELE RUA

È spirato mercoledì all’alba, dopo un’agonia tranquilla, l’agonia di un santo che, fino all’ultimo momento, si mostra noncurante di se stesso e tutto asservito alla beneficenza nella più sublime estrinsecazione. Sì, don Rua, come don Bosco, fu un gran santo, fu un grande benefattore, fu un grande italiano che seppe e volle, con fervore d’apostolo e con ardente amor patrio, estendere anche alle terre più lontane i benefici della civiltà e della carità ispirata ai più alti ideali.

Era nato il 9 gennaio 1837, poco lungi dalla località in cui sorse più tardi il primo oratorio salesiano. Ivi era allora la Fucina delle canne dello Stato sardo, nella quale Giovanni Rua, suo padre, era impiegato; ed ivi ebbe poveri ed oscuri natali.

La morte di don Michele Rua avrà larga eco anche fuori del mondo cattolico, perchè egli aveva conoscenti e ammiratori fra uomini di partito e di fede diversa. Basta, a provarlo, questo episodio, fra i molti, che a Torino a suo tempo menò molto rumore.

Da tre mesi durava uno sciopero in un notissimo cotonificio della città; i proprietari non volevano assolutamente scendere a patti con la maestranza di oltre mille operai nè a discussione coi rappresentanti di questa. Erano avvenuti vari tumulti e clamorose dimostrazioni sia davanti allo stabilimento cinto di una specie di assedio giorno e notte, sia sotto le case di alcuni cosidetti krumiri. In più di una famiglia si soffriva anche la fame. Prefetto, sindaco, questore e le altre autorità avevano dato inutilmente la loro opera pacificatrice.

Don Rua chiamò un giorno nella sua povera celletta i proprietari dello stabilimento e i rappresentanti degli operai, e ciò che non avevano potuto le autorità cittadine con promesse o minacce, potè ottenere con la sua parola l’umile sacerdote. La vertenza fu concordemente risolta e la pace e il lavoro ritornarono in tutta una legione di lavoratori.

La figura di don Rua, alta, esile, quasi mistica, e la sua parola semplice, i suoi modi bonari, ricordavano il fondatore dell’opera salesiana, don Bosco, del quale sin da giovinetto egli godette l’illimitata fiducia e la protezione.