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IL BUON CUORE 107


«A San Carlo invece, anche umanamente parlando, risale il merito grande, inestimabile di aver col suo mirabile esempio di fede e di santa audacia tenuto alto nei cuori il coraggio nel pericolo e la fiducia della vita: elementi questi di grande valore in un momento di panico generale; se il morale si ripercuote nel fisico, come l’esperienza dimostra, quello fu certo uno dei meriti innegabili in S. Carlo Borromeo, di aver con la parola con l’esempio confortato così virilmente i suoi contemporanei, da renderne i corpi stessi più refrattari al contagio e alla morte».

Don Cesase Orsenigo conchiude rilevando come la Chiesa, quantunque istituita per il Cielo, sia ancora all’occasione l’istituzione più pronta, più energica, più abile a lenire anche le miserie terrene. San Carlo, ad onta del suo ascetismo, che sembrava staccarlo da ogni preoccupazione terrena, seppe in quella occasione prendere il primo posto tra gli uomini d’azione pubblica; la sua profonda religiosità, le sue numerose preghiere non gli impedirono di essere nè un organizzatore geniale nei più dolorosi frangenti, nè un benefattore cospicuo e coraggioso, quanto più insistenti si facevano i bisogni materiali del suo popolo.

PICCOLO ARTISTA

Disma appena nato era così esile, così piccolo, che le amiche di sua madre lo guardavano pietosamente crollando il capo, persuase che non sarebbe vissuto più di una settimana.

S’affrettarono a battezzarlo, per timore che morisse per via, se l’avessero portato alla chiesa ch’era molto lontana, e lo chiamarono Disma, perchè la sua madrina era molto devota di quel Santo fortunato, che con un sospiro s’era guadagnato il Paradiso, com’ella diceva.

Tanto il bimbo doveva morire, ed era inutile dargli un nome di famiglia.

Ma il bimbo non morì; cominciò anzi a sgambettare e a piangere, così debolmente però, da parere un micino; era sempre affamato, eppure non cresceva come gli altri: era pallido, smunto, con le guancie infossate, i capelli radi e gli occhi chiari e fissi, come se vedesse qualcosa di strano, che nessun altro vedeva.

D’inverno se ne stava sempre vicino alla stufa e piagnucolava per la fame, quando sua madre — una povera giornaliera — non aveva nulla da mettere in pentola. L’estate invece girellava pei campi, fermandosi estatico ad ascoltare gli uccellini che cantavano sugli alberi.

Sua madre gli voleva bene a modo suo, ma lo batteva spesso e gli dava dell’incantato, vedendolo sempre astratto e silenzioso.

A otto anni Disma andava sui monti a raccoglier legna, o nei boschi in cerca di funghi; ma molte volte tornava a mani vuote e allora diceva balbettando:

― Mamma, nel bosco c’era qualcosa che sonava, e io sono stato a sentire....

― Ora ti sonerò io, — diceva la madre, e lo picchiava
sodo. Il ragazzo urlava, prometteva che non lo farebbe più; ma intanto pensava di tornar ad ascoltare quei suoni misteriosi, che l’avevano rapito.

Che cos’erano? Chi lo sa? I pini, i faggi, le betulle, gli usignoli, il vento... tutto sonava per lui. La sera ascoltava il canto delle contadine che tornavano dal lavoro gli pareva che tutto il villaggio cantasse.

La musica era la sua passione; in primavera scappava di casa per farsi degli zufoli vicino al ruscello. La notte, quando le rane cominciavano a gracidare, le quaglie nei prati a pispigliare, gli insetti a ronzare e i grilli a cantare, egli non poteva dormire, ascoltava, e Dio sa che musica sentisse in tutto ciò!

In Chiesa, quando l’organo suonava, egli pareva svenire per la commozione.

Spesso lo si vedeva la sera accovacciato contro il muro dell’osteria ad ascoltare i violini che facevano ballare i giovani del paese.

Che cosa non avrebbe dato per avere un violino che cantasse così dolcemente! Dai pezzi di legno che cantano.... Ma dove prenderli? Come si fanno? Se almeno avesse potuto tenerne in mano uno, una volta sola, per qualche minuto!... Almeno l’avessero lasciato ascoltare in pace; ma invece di solito gli dicevano:

— Va’ a casa, vagabondo.

Allora sgattaiolava co’ suoi piedi nudi sino a casa, e dietro a lui correva nelle tenebre la voce del violino, che cantava così dolcemente....

Provò a fabbricarsene uno con delle assicelle e dei crini di cavallo, ma non voleva suonare bene come quelli della bettola; ronzava piano come una zanzara o squittiva come un topo. Però Disma sonava da mane a sera, benchè sua madre lo picchiasse per farlo smettere.

Intanto il ragazzo si faceva sempre più pallido, più magro; le gote e il petto gli si infossavano sempre più; il poverino pativa spesso la fame e sopratutto si struggeva dal desiderio di possedere un violino.

Ma pur troppo questo desiderio non gli portò fortuna.

Un servo del castello — che dominava il piccolo villaggio polacco — aveva un violino e sovente lo sonava all’imbrunire per divertire le cameriere. Disma a volte strisciava fra le erbe fino alla porta aperta del palazzo per vederlo: era appeso al muro in un andito, dirimpetto all’uscio. Il ragazzo stava lì immobile, a contemplare quell’oggetto del suo amore, che gli pareva una cosa sacra, ch’egli non era degno di toccare.

Ma quanto lo desiderava! Avrebbe voluto averlo almeno una volta tra le mani.... Il suo cuore sussultava di gioia al solo pensarvi.

Una sera nell’atrio non c’era nessuno; i signori da parecchio tempo erano all’estero e la casa rimaneva deserta; anche il servitore era uscito. Disma, accovacciato tra l’erba, guardava l’oggetto di tutti i suoi desideri; la luna piena, entrando per la finestra aperta, illuminava la parete di contro, dove lo strumento era appeso, e a poco a poco parve circondarlo di un’aureola luminosa. In quel chiarore tutte le parti spiccavano distintamente: la cassa, le corde, il manico; gli spinelli scintillavano come lucciole, l’archetto sembrava una verga d’argento.