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106 IL BUON CUORE


dato ai Vescovi che in caso di peste procurino che «sia nelle chiese come nelle processioni i fedeli non siano affollati, densi, pigiati, ma distinti con ordine e separati da uno spazio, affinchè non si dia occasione al contagio» dopo d’aver suggerito che se v’è pericolo di affollamento si ponga piuttosto un Altare portatile alla soglia della chiesa, onde assistano alla Messa dall’esterno, che le riunioni dei confratelli e le scuole della dottrina cristiana si facciano in luogo pubblico, cioè al cimitero (che allora era attorno alla chiesa) o in piazza o ne’ crocicchi delle strade, dopo aver raccomandato di tener in posti separati nella chiesa le persone sospette da peste e quelle non sospette assegnando loro due distinti vasi per l’acqua benedetta, conchiude: «Bisogna evitare sopratutto, che la moltitudine del popolo chiusa nelle case non intervenga per lungo tempo neppure alla chiesa, per guisa che non solo restino sospese gran parte delle pratiche religiose, ma anche perdano il loro fascino: il che certo è disgrazia da temersi assai più d’ogni funestissima pestilenza». E soggiunge che nel prescrivere le quarantene si abbiano cura il Magistrato e il Vescovo «di badare tanto alla peste delle anime che al contagio dei corpi, il quale poi, per moltissimi titoli, è meno dannoso».

«Nè si creda che San Carlo limitasse la sua azione durante la peste alle processioni; egli adottò anzi e suggerì un cumulo di precauzioni così minute per impedire il diffondersi del contagio, che certo un medico al suo posto non avrebbe forse fatto meglio. Egli stesso s’aggirava sempre con una bacchetta alla mano, perchè era questo il distintivo delle persone sospette d’infezione e dalle quali bisognava passar lontano, distribuiva le sue elemosine mettendo le monete in un vasetto d’aceto, donde il povero doveva levarle: era questa una disinfezione un po’ discutibile, ma era quanto la scienza di allora suggeriva.

«Più tardi, quando il morbo maggiormente infieriva ed era imposta la quarantena a tutti i cittadini, S. Carlo fece erigere ai crocicchi delle vie degli Altari, ove i sacerdoti celebravano poi la Messa a conforto dei cittadini, che dalla finestra vi assistevano senza esporsi a pericolosi contatti: in seguito gli Altari furono tolti e in memoria furono erette al loro posto delle colonne sormontate da croci, come tuttora si vede a P. Romana, a San Celso e a Porta Vittoria.

«Ai religiosi ed alle religiose, che prestavano servizio fra gli appestati, prescrisse che tornando in convento abitassero assolutamente in celle separate dal resto della comunità.

«È vero che amministrando i Sacramenti sia della Comunione come dell’Olio Santo non volle mai usare istrumenti speciali per impedire il contatto immediato, ma questo non riguardava che la sua persona. Aveva premura che fossero lavati accuratamente tutti gli oggetti, che erano stati posti a contatto con gente infetta; non permetteva ai suoi famigliari, come pure ai canonici quando scendeva in coro per l’officiatura, di accostarsi a lui.

«Spinse la sua cautela fino a far porre nella sua sala di ricevimento delle grate, come si usa nei
conventi di clausura, per evitare ogni pericolo alle persone che venivano a fargli visita e a conferire con lui.

«Usò di tutta la sua autorità e ricorse anche alle pene spirituali per impedire tutto ciò che poteva esser causa di contagio: fulminò la scomunica contro quelli che facevano traffico di abiti usati dagli appestati, come pure vietò rigorosamente l’uso che andava introducendosi di farsi prestare o portare addosso certe orazioni scritte od anelli, come fossero una specie di talismano contro il morbo.

«In quel famoso Concilio Provinciale V, tenuto nel 1579, cioè due anni dopo la peste, il Santo Pastore volle far parte a tutti i Vescovi della sua provincia dei frutti della sua dolorosa esperienza a proposito di contagio. Ebbene gli Atti di quel Concilio sono un documento veramente mirabile di legislazione in fatto d’igiene: vi si danno norme che si direbbero tolte da Regolamento moderno. I paragrafi circa quanto i Vescovi dovranno fare per approntare lazzaretti provvisori, per aver pronti medici, infermieri, monatti, nutrici, per ovviare al pericolo della carestia, che quasi sempre accompagnava la peste, le cautele per impedire che la peste si diffonda, le precauzioni da usarsi dai sacerdoti quando accostano appestati e dopo averli avvicinati, sono redatte con criteri inappuntabili.

«Ci limitiamo ad un’unica citazione, in mezzo a quel cumulo di consigli e di precetti, ad un’inezia, se si vuole, ma appunto perchè tale, maggiormente atta a dimostrare fin dove fosse arrivata la sua scienza e la sua pratica a proposito di igiene.

«Egli prescrive dunque che si tengano nelle chiese apposite cassette riempite di calce per raccogliere gli sputi, e ordina persino come e quando si debba pulirle e rinnovare la calce. Che ne dicono quei nostri storici moderni che osarono denigrare l’opera di San Carlo durante la peste? Forse non sapevano che proprio nelle norme da lui date e praticate, cioè a tre secoli di distanza, vi erano invece vere anticipazioni delle più moderne disposizioni d’igiene pubblica. E come questa sono a centinaia le norme da lui dettate, eco fedele di una scienza igienica non suggerita dal cieco impulso di un pericolo incombente, ma metodica e non disprezzabile neppur oggi.

«Del resto se le statistiche valgono ancora qualche cosa, come mai i nostri moderni scrittori, ricusando a San Carlo e agli altri suoi cooperatori una miracolosa preservazione del contagio e negando loro al tempo stesso ogni scienza e pratica igienica, spiegando che dei famigliari di San Carlo nessuno è morto, tranne un domestico, che non aveva mai prestato servizio agli appestati? che dei religiosi, eccetto quelli che caddero sul campo della gloria, ove erano accorsi a compiere il loro ufficio, nessuno è morto? che nel Seminario si registrarono tre sole vittime, due chierici e un Padre Gesuita?

«Non già che tutto allora si sia fatto a perfezione: errori dal punto di vista igienico certamente ve ne furono, come nessuno dubita se ne commettano oggi, che rileveranno poi a suo tempo i nostri posteri. Ma furono errori imputabili al tempo, ossia alla scienza e alle opinioni dominanti, e non già al tale o al tall’altro uomo.