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verde guscio della noce intorno al gheriglio. Dava infatti il senso di una vegetale durezza. Erano le «Memorie del tempo presente», segno della sua scontrosa giovinezza, che sentendosi crudamente giudicata in cospetto di Dio e del Diavolo se la cavava dalle strette di una questione teologica con delle sottigliezze di stile e di lingua. O malinconico e maliziosissimo amore di queste asciutte pagine dove l’anima è in fondo quella di colui che è contento del proprio male! Da ogni parte son mucchietti di cenere che par spenta, ma non è fredda, e che l'uomo aduna con un gesto di melodiosa stanchezza. (Parlo di quelle parti anticipate dalla «Voce» di De Robertis). Sensi che toccati rispondono con una voce senza speranza. La pagina sa di arso, di bruciato. In caso, sarebbero vedute di foreste carbonizzate. Metaforicamente intendo, ma che tristi paesi! E’, per dirla in poche parole, il diario della sua stagione all’inferno: «Avrò come sempre ho avuto, impazienze e sopori in amore, trasporti e sussulti, viaggi fatali, torno a tacere quanto posso; io non sono più qui; ecc.» Lo stile più che melodioso non saprei come chiamarlo, e io ho sentito esprimevi melodiose e fluenti le ore di una morte. Lo avverto svolgersi e prender spazio nell’anima con i suoni vuoti e metallici di una musica ascoltata, un pomeriggio d’estate, stando dentro una camera dove l’ombra verde metteva un senso di mobile lontananza. A queste prime memorie seguirono altre che il lettore troverà nella «Ronda» romana, nelle quali vedrà che ad un riaccostamento più franco colla realtà naturale anche la scrittura riprende per così dire il bel colore della vita. Vi si discorre ancora di paesi e dell’Italia, con la particolare nostalgia del soldato, che va tutta in dettagli e minuzie di ricordi. E’ lo stesso sentimento che dà motivo alla drammatica scontentezza di «Spartaco», dove par vero che le scene e i paesaggi si fanno scenario e dialogo. Del resto, dall’idillio non fiorisce un dialogo? L’Aminta del Tasso, che ho citato più sopra, non a caso mi sarà venuta sotto la penna. In Spartaco, è chiaramente la nostalgia di un uomo di altri paesi per la nostra terra, che dalle Alpi ripensa alla pianura Padana, all’Etruria, e di qui alla estrema Calabria, seminata di castelli sul mare, ai polverosi deserti della Sicilia dove ci ricorda Verga che fiorisce la ginestra. Non diversa è la malinconia del principe Amleto, disperato della vita ma desideroso di ritrovare in un lungo viaggio i luoghi del mezzogiorno.

III.

Bocchelli ha usato giustamente del suo privilegio di poeta, riscrivendo il suo Amleto, e facendo in modo che lo rileggessimo dopo parecchi anni dal primo. Sono opere che sforzano l’immaginazione, la occupano, e impediscono alla memoria di spiegar la bellezza di esse, le quali continuano a tenerla nel dominio della cieca meraviglia. Il loro rapporto con i mezzi normali del nostro gusto critico son troppo inconsueti. Chi di noi, a quindici anni, avrebbe potuto dire perchè tanto ci piacessero le avventure dell’hidalgo Don Chisiotte o l’incanto della Santa Cecilia di Raffaello? Certo ci piacevano, ci rapivano in mute meraviglie, e ora possiamo spiegare perchè. Di Bacchelii non si potrà mai chiarire abbastanza quanto egli sia uno scrittore fantastico. La sua più naturale inclinazione par quella di chi si abbandona alla forza fluente della propria fantasia e che di suo non può far altro che regolarne il corso, rallentarlo appena, e concedergli di allungarsi e di riposare calmamente in larghi spazi. Forse per questo è maggiormente giusta l’immagine fluviale che di lui ha fatto Vincenzo Cardarelli. La piena della sua fantasia lo porta allo scrivere con una urgenza che è tanto più invincibile quanto più giunge di lontano. Sotto la sua penna affluiscono le immagini e rombano di vita, con un calore estivo, come quando vediamo fervere il lento e assiduo volo delle api intorno ai fiori del prato. E nel sentimento di questo pieno e infrenabile maturarsi, è un poco il gesto della sua malinconia, e nell’attimo che lo regge e governa l’atto e l’avvento del suo stile. Uno stile cui tastano solo le rive della favola del mito per riuscire veramente perfetto e intonato. Stanno a dimostrarlo, la favola di Amleto; quella di Spartaco con la narrazione dei costumi e della religione della defunta Etruria fatta dal sacerdote Aronte; e la tempestosa vicenda familiare di Andromaca; il mito dei mostri di mare nati dalle Cosmogonie, e tutta l’ironica e satirica epopea del tonno, di festosa memoria, a trovare il clima temperato della quale, forse. Bacchelli pensò fin da quando stendeva il commento della «Batrocomiomachia» leopardiana. Ma perchè non ricorderemo il «Diavolo e le Pentole», scritto in un estate e un autunno di burrascosi avvenimenti politici? Farsa aristofanesca, dialoghetti alla maniera di Luciano, l’autore ci conduceva per mano attraverso un festival di meraviglie, a udir l’arguto diavolo faustiano, a sentir la storia di un re negro, e Ravenna abbandonata dal mare, e Deucalione e Pirra tessere in versi la tela di un idillio classico. Io voglio tornare colla memoria a quella primavera dell’ultimo anno di guerra, quando andavo a trovar Bacchelii, ed egli, così per provarsi a scrivere un dramma, stava lavorando alle prime scene dell’Amleto. Nella sua rossa casa, dove le finestre delle belle camere guardavano in un giardino bolognese, si mostrava contento dell’idea di poter svolgere su d’un tema, così indovinato da parer personale, i suoi motivi lirici. Mi par di sentire la sua voce mentre ripeteva gli ammonimenti del vecchio Polonio alla figlia, e la musicale stanchezza dei monologhi di Amleto, di quel caratteristico modo di parlar da solo ad alta voce, o colla propria coscienza, che pure essendo di Shakespeare non è meno della natura moraleggiante e sofistica di Bacchetti. I motivi, dirci anzi, sono risvegliati instancabilmente dall’intima coscienza e il linguaggio che li esprime ha le asprezze, i trasalimenti e gli urti per cui il sangue umano diventa memoria ed anima. La vita d’Amleto! Noi crediamo sempre di conoscerla, e invece non la conosciamo a fondo. Grava su queste pagine, un triste fiato di carne mortale, e quando vi si parla di morte è con un accento di stupefatta realtà. Anche la noia vi ha la sua buona parte, e il languore di un corpo che s’intorbida nella salute fisica quanto deperisce quella del cuore, onde gli par d’invecchiare e che ogni ora sia veramente trascorsa senza rimedio: «Il mio peccato, se mai, è che per me ciò che passa non passa abbastanza in fretta». Oh questo principe danese che ha letto Nietzsche e Rimbaud! Sono dialoghi dove le parole hanno la lucidezza delle parole dette in sogno, alle quali non la vita, ma quell’immagine della morte che è il sonno, dà un timbro inimitabile. Dimostrare il significato della figura d’Amleto è compito d’altra critica, la mia e professione più modesta. Mi basta ricordare alcune sue stanche movenze ispirate ad un sinistro garbo. La sua voce è fatta solo di echi improvvisi, come ci accade di udir ritornare, in aperta valle, un richiamo lanciato per la campagna. E’ un’arte, è tutto un sistema di echi sconcertanti, che posson riuscir fino angosciosi. I suoi occhi vedono fisse immagini ed epoche, guardano con una immane pazienza orientale, o nordica, che è lo stesso. Oh incredibile lentezza! La sua luce è riflesso, è il guscio vuoto che la luce vitale lui già abbandonato. La nostra umana discrezione non ci consente di dire in che ora, di qual giorno avremmo il senso d’esserne stati gli inconsapevoli testimoni. Ma quando fu? Chi avrà la memoria tanto ferma da fissare una data? Certo, o amico Bacchelli è stato nei tempi della cara gioventù, ed è quindi perdonabile se ci illudiamo di aver partecipato a qualche confidenza di quel freddo personaggio, che è Amleto!

28 giugno 1925. Giuseppe Raimondi.


Elogio delle formule.

(Studio su TILGHER e F. M. MARTINI)

La maggior parte dei critici — e qui parleremo dei critici teatrali, ma, in fondo, il problema s’impone a ogni sorta di critici — è, in principio, eclettica.

Ogni critico, secondo il suo carattere alle volte maligno e alle volte benigno, dispensa biasimi e lodi, che non sì sa bene da che cosa siano regolati; perchè secondo la convenienza del momento, il critico si riferisce a qualche principio generale in cui è sottinteso che tutti s’accorderebbero, oppure a quei principi che l’autore si sarebbe imposto e non ha poi saputo mantenere.

Il pubblico, il quale, di questa critica apprezza la malleabilità e, talora, il buon gusto, non s’è ancora accorto che essa manca assolutamente, in compenso, di responsabilità; e che anche per questo, e per la segretezza e il lappolare continuo di principi, che nessuno può controllare, essa non riesce a far quella sistemazione dei valori sopra una scala unica, che mi sembrerebbe la sua grande funzione.

Per questo, quando ho visto, prima con un critico come Tilgher e ora con un critico come Fausto Maria Martini, tentare una pubblica dichiarazione di principi, per spiegare, imprigionandosi dentro alla loro formula di partito preso, che cosa intendono per teatro, invece di indignarmi di questa rinunzia, mi sono molto rallegrato, perchè in essa vedo l’unica regolare e pacata chiarificazione della critica moderna.

«Giudicare è inquadrare nella storia, è collocare a suo posto nel movimento generale dello spirito», scriveva, ancora negli «Studi sul Teatro contemporaneo» Adriano Titgher. Ma per inquadrare bisogna che il critico abbia un suo mondo, in cui ogni nuovo elemento possa trovar sistemazione.

«Caselle» dice con spregio il pubblico. Appunto. Non importa che il mondo sia limitato, basta che sia coerente e armonioso. Ne abbiamo qui dinanzi due, che si oppongono: quello di Tilgher (La Scena e la Vita, Roma, Libreria di Scienze e lettere, 1925) e quello di Martini (Cronache Teatrali, Barbèra Editore, Firenze). In ognuno di essi, studiando come via via i principi sono stati messi in pratica, potremo trovar qualche inesattezza; gli stessi principi appariranno discutibili; ma dovremo ammettere che ci troviamo dinnanzi a un mondo, in cui ogni dramma può trovare posto e proporzione. La critica così rientra nelle leggi dell’armonia, che dovrebbero sempre governarla.

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La formula di Tilgher è stata largamente esposta, come tutti ricordano, in quegli «Studi sul Teatro Contemporaneo» che sollevarono tanto rumore. In verità, egli è stato il primo a piantare nel mezzo di mio spalancato e facile eclettismo, quella sua chiusa, arcigna e nuova maniera di giudicare il teatro, che è poi «la formula».

La formula fu molto discussa; anche perchè, per quella sua prepotente aria paradossale, e per certe oscurità di concetto, era facilmente discutibile. Tilgher diceva: Arte = Originalità; Originalità = attualità — Quindi, logicamente, Arte = attualità.

Ma che cosa fosse questa «attualità» non era ben chiaro, perchè alle volte essa si avvicinava all’universale e alle volte al contingente. In questo secondo volume troviamo, a proposito di De Curel, un’osservazione che riattaccherebbe l’attualità piuttosto all’universale che al contingente.

«Per esser troppo del suo tempo, non nel senso profondo in cui l’arte è sempre voce del tempo, ma nel senso di legarsi troppo alla forma che problemi di vita contemporanea hanno assunto in altri domini di conoscenza, De Curel rischia di non essere l’uomo di domani».

Se dunque Tilgher per attuale intende quello che e moderato, ossia vivo e eterno, quando parla dei problemi della verità e della finzione, che avrebbero rinnovato le nostre scene, più che un imperativo categorico all’artista, egli fa una constatazione. Perchè non potrebbe esporsi al rischio di sostenere che è vivo, moderno e eterno soltanto il problema della realtà e della finzione.

Ma quel che egli esige dalla nostra arte, si vede più chiaramente quando, ancora negli «Studi sul Teatro Contemporaneo». Tilgher si estende sui doveri del critico moderno. «Avere un’idea chiara del problema dei tempi nostri; di quella determinata ansia di creazione di un nuovo mondo che è il tempo nostro e gli conferisce un’impronta inconfondibile, è condizione necessaria, presupposto indispensabile per fare della critica sul serio, per riconoscere il capolavoro se domani si presenterà».

In un certo senso, la vita moderna gli sembra necessaria come una forma fissa, in cui far calare una materia universale.

La formula dunque c’è; e in questo nuovo libro, più che nell’altro, tutto fatto di grossi pezzi dimostrativi, si può veder come è messa in pratica. La critica, che ne deriva, è necessariamente una critica filosofica. E’ questa una prima limitazione. Ma nonostante le obbiezioni che le sono state mosse da molte parti, io credo che una critica di tale natura, possa anche rientrare, per vie traverse, nel campo della critica suggestiva.

Osservate, per esempio questa definizione di Lenosmand:

«Ad H. R. Lenosmand l’uomo appare qualcosa che non in sè, ma fuori di sè ha il principio del suo essere e del suo divenire; per parlare in linguaggio bergsoniano egli non già vive ed agisce, ma è vissuto ed agito dalle forze fisiche, dalla natura che è fuori di lui».

Lo stesso si può dire per questa sintesi dell’unanimismo di Jules Romains:

«In aritmetica, due metà fanno un’unità. In trattoria, secondo un’osservazione fatta or è molti anni da un personaggio della Vie de Bohéme e della quale chiunque siasi trovato a corto di quattrini ha avuto modo di constatare per conto suo l’esattezza, due mezze porzioni fanno più di una porzione intera. Generalizzate, come fa Edgardo Poe nella novella «La lettera rubata», ponete che nella realtà concreta della vita due metà fanno più di un’unità, ed avrete il principio dell’Unanimismo». Che la critica filosofica abbia degli inconvenienti è indubbio. Tra l’altro, essa non si sfama appieno che di idee universali; e però alle volte, anche nella critica di Tilgher, dobbiamo notar degli ingrandimenti un po’ appiccicati; perchè in verità non c’è dramma borghese in cui non si possa ritrovare un problema del Male contro il Bene, del Passato contro il Presente, moltiplicando, come fanno i geometri con uno strumento semplicissimo, le povere e umili situazioni create da un cattivo contro un buono, e da un padre contro un figlio. Ma questo inconveniente è sempre da preferirsi a quello opposto.

D’altra parte, la critica filosofica, che s’esercita sui concetti, stenta per la sua stessa natura a rendersi conto della realizzazione, che rientra nel campo della pura sensibilità. E Tilgher, che di questa non manca, si trova per così dire impacciato dalla architettura di giudizi in tema universale, che ha costruito intorno ad ogni scrittore.

Così, anche quando vorrebbe scendere a un esame più ardente non gli riesce, come non riuscirebbe a uno scultore, che da due ore s’accanisce sopra un grosso blocco di marmo, di infilar un’ago. Deve perciò venire a delle transazioni curiose con la filosofia; e rassegnarsi a notare, di tutte le forme in cui la realizzazione si esprime, quelle più schematiche, che non si staccano troppo dall’aria universale, in cui tutto il saggio è immerso. Per scegliersi un’esempio tipico della critica Tilgheriana, quando s’applica alla realizzazione, citerò un passo del saggio sul «Cigno» di Francesco Molnar: «Il difetto della commedia... è in ciò: che non è il cigno che sceso a terra, e diventato oca, se la sbriga da sè a ricuperar la testa che aveva perduta; la soluzione viene dal di fuori, da un personaggio che interviene come deus ex machina a sciogliere il nodo strettosi fra Alessandra e il professore».

A questo punto, che Tilgher coglie sempre con giustezza, la sua critica filosofica e molto sensibile. Potrete infatti ritrovare la stessa osservazione altrove: ad esempio, nel saggio sul «Pecheur d’ombres».

E si capisce. Nel caso presente, la rigidità della forma critica, benché annulli certi arabeschi critici da orafo, li rende, tra le mani di Tilgher, preziosa. Ma in un altro caso invece, il caso unico del Tombeau su l’Arc de Triomphe, di Raynal, mi pare che rischi di scombuiare.

La tesi di Tilgher, a proposito di quest’opera, vi pare, sulle prime, bizzarra, ma attraente Egli vuol dimostrare che gli appunti mossi contro quell’opera dalla critica francese, varrebbero se l’Opera fosse un dramma, ma non hanno peso, perchè è una tragedia. Ora se voi considerate attentamente le due parti del saggio, prima quella intorno al dramma e poi quella intorno alla tragedia, v’accorgerete che nella prima si tratta della realizzazione, e nella seconda invece, si parla dell'enunciazione della idea drammatica. Il salvataggio della tragedia riesce, perchè Tilgher, abbandonando l’esame critico, della realizzazione, passa allo sviluppo filosofico del tema, senza rendersi conto, che dovrebbe poi mettersi a studiare come è stato, anche in forma di tragedia, tradotto.

Ma nonostante questi impacci, che gli mette il suo sistema di critica, Tilgher ogni tanto, riesce durante una scappata, a mostrare come saprebbe giudicar, con la pura sensibilità. Nella «Scena e la Vita» abbiamo due esempi magnifici di esame della forma. Quello su Bataille (nota a pag. 11, lo studiò della «tavolozza» del drammaturgo), e specialmente quello su Cecoi, che è forse il più profondo del libro.

«Naufraghi in porto, come un piroscafo abbandonato di cui l’acqua lentamente riempia la stiva».

Così sono dipinti i protagonisti di questo grande tragico russo — e a me pare che non si potesse trovare una metafora più solenne e definitiva.

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La formula Martini invece è una formula, che esige più sensibilità che dottrina e per questo è più larga, ma anche più vaga, più ansiosa, più curiosa e tremolante, e in un certo senso, non ancora chiaramente compita come quella di Tilgher.

Tutti i lettori di questo delicatissimo critico sanno che per lui il vero teatro è poesia; e questo pensiero ritorna, come deve essere, in ogni articolo, in cui si esamini un’opera che può rientrar per qualche verso nel campo dell'arte. Che cosa sia questa poesia Martini non ha tentato di spiegarlo in un libro fondamentale, come ha fatto Tilgher; l’ha detto un po’ di qua un po’ di là, non senza un certo ondeggiare fra due o tre concetti, o quasi dirci sentimenti maggiori ma sempre con un grande equilibrio, una lodevole diffidenza delle apparenze, e una profonda onestà.

Poi che abbiamo dinanzi tutti i saggi dell’anno, possiamo, come il can da pastore, riunire le varie briciole di questo concetto di poesia, disperse attraverso il libro come le pecore di un gregge pascente in un grande prato.

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In fondo all’articolo su «La leggenda di Liliom» Martini, in un momento di gioia, grida, più che non constati che «il teatro più alto e più puro è sempre e solo quello che deriva la sua più fervida vita dalla poesia delle cose o dalla interpretazione lirica della realtà».

Questa affermazione, la più categorica forse del libro è composta di due parti: «poesia delle cose» e «interpretazione lirica della realtà». La «poesia delle cose» rimane un po’ oscura; è una di quelle formule che non riescono vuote di senso, che anzi vi lasciano dentro delle frange di sentimenti; ma che, a batterci sopra, non risuonano.

Quella «interpretazione lirica» che altrove e chiamata trasposizione lirica» è più chiara.

In un altro passo dell’articolo su «la Leggenda di Liliom» questo concetto è ribadito e amplificato:

«Nulla che valga a ridarvi l’intima forza del dramma, la poesia della leggenda, quel tanto cioè di vita poetica che il Molnar ha aggiunto alla modestissima realtà da lui presa a pretesto e per cui quell’umile serva che si innamora del banditore della giostra diventa il tipo di tutte le povere creature perdutamente prese di un uomo indegno di loro e assume a poco a poco un valore universale di umanità, evidente e incancellabile».

La poesia, secondo questo passo, sarebbe dunque un’atmosfera di universale che brilla intorno ai tipi vigorosamente creati. In questa regione astrale, le formule dei due critici si incontrano; ma secondo l’uno ci si arriva a traverso il crogiuolo dei problemi moderni, e secondo l’altro mediante un affiato lirico, che sia come la luce del crepuscolo sulle vetrate di una strada esposta ad occidente.

Nell’articolo sul «Tenacity» noi vediamo come questo bisogno di liricizzazione faccia sì, che l’autore gusti soprattutto quelle opere per così dire di piccola complessione fisica; intorno a cui sia possibile diffondere un alone spirituale.

Per poter «suggerire» qualche cosa, per potersi espandere a poco a poco, bisogna che il nucleo del dramma abbia una gracile apparenza, e sia come quegli uomini, che con un corpo privo di prestigio, piacciono a poco a poco per la luce interna di cui sanno abbellirlo.

«Far qualche cosa con niente» l’ideale drammatico che Racine si propone nella sua mirabile prefazione al Titus et Bérénice, è appunto ricordato da Martini in questo articolo.

«Autentico teatro di poesia, — aggiunge il critico — questo nel quale l’artista muove dal più povero realismo e vi indugia dalla prima all’ultima scena, ma, grazie alla sua sensibilità estremamente fine e grazie soprattutto alla misteriosa efficacia del suo lirismo, suscita intorno al più minuto dettaglio di verità che egli sfiora, una sorta di ampliamento poetico che subito si compone — da sè e quasi assente il commediografo — in una precisa unità di visione e di significato».

La poesia sarebbe dunque più precisamente la cristallizzazione (per parlare alla Stendhal) che si fa intorno a un nucleo povero. Altre volte, ma davanti a tutti questi esempi l’eccezione non ha troppa importanza, la poesia può trarsi dall’ «indagine ansiosa, paziente, minuta dell’anima umana di fronte al mistero dell’amore». (Dall’articolo su «Amare» di Geraldy), e quindi farebbe rientrare nella formula di Martini qualsiasi dramma psicologico.

In ogni caso — e questo è importante da stabilirsi — la poesia non ha niente a che fare con la lirica declamatoria, anche se espressa in veri e propri endecasillabi.

«Eloquenza e teatralità, scrive Martini a proposito dell’ Aquila del Vespro», sono i caratteri essenziali di questa tragedia, e chi mi legge non ignora quanto poco il mio spirito sia sensibile a queste due lussuriose virtù».

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I lettori avranno già osservato che nella prima parte dell' articolo io mi sono limitato a riassumere una formula già esposta e a veder come fosse adoperata, nella seconda a trovar dei contorni alla formula stessa. E queste mie due posizioni di fronte al problema sono, di per se stesse, una manifestazione critica.

Non posso, a questo punto, non accennare agli effetti psicologici che hanno, sui due critici, le loro formule. Perchè Tilgher, una volta che ha trovato il nucleo concettuale del dramma, e l’ha messo a posto nel gran registro del tempo, fatte alcune osservazioni sulla tecnica, si trova pago. Non si sente mai, nella sua critica, un senso di