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IDILLIO XI 83


Allòri son costí, son cipressi da l’agile fusto,
l’edera negra c’è, c’è la vite dal frutto soave,
gelida l’acqua c’è, che l’Etna chiomata di frondi
per me distilla, ambrosio licor, da la candida neve.

Ché, se ti sembra, poi, ch’io sia troppo irsuto di pelo,
legna di quercia ho qui, fra la cenere il fuoco sempre arde:
sopporterei da te che l’anima pur mi bruciassi,
e quest’occhio, ch’è solo, che nulla nel mondo ho piú caro.

Ahimè! Perché mia madre non mi partorí con le branchie,
ché presso te potessi tuffarmi, e baciarti le mani,
se non volessi la bocca, potessi portarti dei gigli
candidi, oppur del molle papavero i petali rossi.

Esci fuor, Galatea, poi scòrdati, uscita che sii,
di ritornare a casa, cosí come avviene a me stesso.
Deh, ti piacesse con me pascolare le greggi, ed il latte
mungere, stringerlo in cacio, mescendovi l’agro del caglio.

Torto mi fa mia madre, solo essa; e le muovo rampogna,
ché mai, ché mai per me non ti disse una buona parola,
benché di giorno in giorno, divengo, e lo vede, piú magro.
Or le dirò che il corpo, che i piedi mi battono entrambi
di febbre: anch’essa deve crucciarsi, quando io mi torturo.

Dove, o Ciclope, o Ciclope, ti va svolazzando la mente?
Se ne lo speco entrassi, cestelli intrecciassi, e fogliame
per le tue bestie cogliessi, di certo che avresti piú senno.
Mungi la pecora ch’ài: perché quella insegui che fugge?