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re di queste cose, anzi che ce ne sia? Tutto sta a vedere donde vengano.”

Qui cominciavano i guai anche per don Ferrante. Fin che non faceva che dare addosso alla opinione del contagio, trovava da per tutto orecchie benevole, dolci e rispettose: perchè non è da dire quanto sia grande l’autorità d’un dotto di professione, allorchè vuol provare agli altri le cose di cui sono già persuasi. Ma quando veniva a distinguere, e a voler dimostrare che l’errore di quei medici non istava già nell’affermare che ci fosse un male terribile e generale; ma nell’assegnarne la causa e i modi; allora (parlo dei primi tempi, in cui non si voleva sentir discorrere di morbo), allora, invece d’orecchie, egli trovava lingue ribelli, intrattabili; allora, di predicare non c’era luogo, e la sua dottrina non poteva più metterla fuori, che a pezzi e bocconi.

“La c’è pur troppo la vera cagione,” diceva egli: “e sono costretti a riconoscerla anche quelli che sostengono poi quell’altra così in aria... La neghino un po’, se possono, quella fatale congiunzione di Saturno con Giove. E quando mai s’è inteso dire che le influenze si propaghino.... E loro signori, mi vorranno negar le influenze? Mi negheranno che ci sia degli astri? O mi