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CXXV

Lieto della sua tranquillitá lungi dalla curia romana. (’ 539 )

Al bel Metauro, a cui non lungi fanno
servi devoti a Dio romito seggio,
ai boschi, ai vaghi prati eterno deggio,
poich’a l’ingiuste brame esilio danno.

Qui, dove l’odio è vinto e muor l’inganno,
il bel de’ sacri studi amo e vagheggio,
spio lo mio interno e quelli error correggio,
ove m’avvolsi è giá l’undecimo anno:

non son dai crudi ed affamati morsi
de l’invidia trafitto, e quella maga
non può cangiarmi il volto e la favella;

maga perfida e ria, cui dietro corsi
incauto: or l’alma, del suo fin presaga,
ritorna in signoria, dov’era ancella.

CXXVI


Rimpiange la vanitá della sua vita.

(1539)

Il verde de l’etá nel foco vissi
e punse ’l cor sol amorosa cura,
poi nacque altro disio, per la cui dura
legge a me stesso libertá prescrissi.

Quanto carco d’error e vii men gissi
chiaro il veggio or ne la mia fama oscura.
Volea. purgati in quest’etá matura
i pensier ch’io tenea nel fango fissi,
tanto appressar a le faville vive
di gloria il nome mio, ch’avesse lume,
come molt’altri ancor, poi eh’ io fia spento;

ma giá Morte il mio di nel ghiaccio scrive,
e rammentar dal divin Sol mi sento
ch’altro splendor che ’l suo piú no’ m’allume.