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LXIV

Non degnamente sa cantare di lei.

Parmi veder che su la destra riva
d’Arno s’assida, ragionando insieme
co’suoi pensier, colei c’ha la mia speme
alzata al par de l’alta fiamma viva;

e, tutta in atto paventosa e schiva,
come chi morte di sua fama teme,
veder s’attriste le sue lode sceme
nel mio stil che sonar si lunge udiva.

Parmi sentir che sospirando dica:

— Spento è (chi ’l crederia?) quel foco chiaro,
ond’ebbe lume la sua oscura vita;

ei vede del rio vulgo aura nemica
sparger a terra il mio leggiadro e caro
fior di vera onestate, e non m’aita.

LXV


Ella tutto lo rivolge al cielo.

Al chiaro foco del mio vivo sole,
ov’accende virtú suoi caldi raggi,
ardo contento, e qui tra gli orni e i faggi
col pensier miro sue bellezze sole.

Qui l’alma, se pur mai si dolse o dole,
s’appaga e sgombra i pensier men che saggi,
ferma di gir per dritti alti viaggi
a l’eterno Signor che sembra e cole:

eh’ indi uscir veggio di lontan faville
che, le piú folte oscure nebbie aprendo,
segnano il bel sentier ch’ai ciel aggiunge.

Cosi stella talor nascer fra mille
per l’ombra ho visto de la notte, lunge
il bel dorato crin seco traendo.