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CCIII

Sul venerdi santo.

È questo il re di gloria, è questo il verbo
di Dio fatt’uomo, il verbo unico eterno
ch’oggi, per salvar noi, morto discerno
sul duro legno? Ah fèro caso acerbo!

Per chi si umile è Dio? perché superbo
tant’è del cuor uman l’affetto interno?
perché, s’ei d’amor arde, orrido verno
e freddo, aspro stridor nel petto io serbo?

Apri gli occhi, alma mia, contempla il duolo
de le sue piaghe, attendi ’l fianco e ’l petto
per le tue colpe scelerate e prave;

e s’ei per te la vita e ’l sangue ha offerto,
spargere a’ piedi suoi non ti sia grave
una lacrima breve, un sospir solo.

CCIV


Niente piú miracoloso della morte di Cristo.

Locar sovra gli abissi i fondamenti
de l’ampia terra e quasi un picciol velo
l’aria spiegar con le tue mani e ’l cielo
e le stelle formar chiare e lucenti ;

por legge al mare, a le tempeste, ai venti,
l’umido unir al suo contrario e ’l gelo,
con provvidenza eterna eterno zelo,
e crear e nudrir tutti i viventi;

Signor, fu poco a la tua gran possanza ;
ma che tu, Dio, tu, creator, volessi
nascer uomo e morir per chi t’offese,
cotanto l’opra de’ sei giorni avanza
che io dir noi so, noi san gli angeli stessi;
dicalo il verbo tuo che sol l’intese.