Pagina:Guidiccioni, Giovanni – Rime, 1912 – BEIC 1850335.djvu/32

XXXV

Beato morrebbe contemplando la sua donna.

Quando giú nel mio core
sonan que’ dolci accenti
(la tua mercede. Amore),
dolor non sento alcun de’ miei tormenti;
ma quando alzo le luci a mirar quelle
piú che ’n guisa mortai serene stelle,
m’abbonda al cor tanta dolcezza, eh’ io
né vita piú né libertá desio;
e s’io morissi in si soave stato,
non visse uom mai quant’io morrei beato.

XXXVI


Pietá piú che Amore l’ha tócco.

Lo strai che ’n sorte ebb’io, dentr’a begli occhi
indorò la Pietá, mentre tendea
l’arco suo Amor, ch’altronde non temea,
bench’io mal cauto ed ei nascosto scocchi.

E: — Dolce passi al cor, dolce lo tocchi —
con chiara ed umil voce li dicea.

Ei, che, mirando lei, piacer bevea,
non conosciuto da’ mortali sciocchi,
le arrise e disse a me : — Diletto e pace
sia teco; — e diemmi il colpo che m’aperse
il duro fianco e non senti’ il dolore.

Dolce piaga vital, ch’or si verace
gioia distilli e crei virtú diverse,
viva ti tien Pietá via piú ch’Amore.