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CXCII

A Francesco Colombo, soprannominato Platone.
Contro la pederastia.

Cecco, perch’ io giá fui persino agli occhi
nel fango ove tu sei sino a la gola,

3 io ne posso parlar me’ che gli sciocchi.

Di quest’arte nefanda e mariola
voglio un gran pezzo ragionarne teco:

6 non t’incresca venir a la mia scola,

ché non espon cosi ’l Torello il greco
come io ti spianerò tutti quei passi
9 ove tu vai precipitoso e cieco.

Non ti creder però ch’io mi pigliassi
teco ’l pensier del Roscio, se, per dio,

12 ti vedessi tirar per piazza i sassi;

ma, perché son per mia disgrazia anch’ io
chiamato Cecco, e questo vizio macchia
15 il comun nome e non piú ’l tuo che ’l mio,

dico che a la ventura il vulgo gracchia
senza rispetto e senza discrezione
18 né distingue dal corvo la cornacchia.

Chi Cecco dice e non dice Platone,
intender si potria Cecco Coppetta;

21 va poi trarlo del capo a le persone.

Oggi con l’arco teso ognun m’aspetta:
o che direbbe un amico de’ nostri
24 per far una leggiadra sua vendetta?

Ma tu, Platon, che di par seco giostri,
non odiar il mio dir, ché a dire ’l vero
27 è piú mercé che a dir i paternostri.

Come può far, i’ non vo’ dir, san Piero,
che piú ti piaccia che’l mangiar e’1 bere
30 un cento, un cinque, un cinquanta ed un zero?

io ti dico del fondo da sedere;
non parlo d’aritmetica, ben ch’ella
33 ti volesse giá far mastro o messere.