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Che vai pur tu, dal vii legnaggio sceso
di Sisifo, nei furti a lui simile,
mischiando il tuo da mille macchie offeso
col sangue nostro candido e gentile?

Sará forse il bel premio a me conteso,
perché io fui tardo a questa impresa o vile,
come costui che, per fuggirla, vólto
a le sue frodi, fé’ chiamarsi stolto,
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fin che il buon Palamede (e con suo danno),
di lui piú accorto, penetrò la scorza
del suo cor vile e ritrovò l’inganno
ed a l’armi schivate il trasse a forza?

Dunque le man che fuggir quelle, avranno
queste famose? e la stupenda forza
e il valor mio, che vi fu sempre scudo,
resterá d’esse dispogliato e nudo?
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Volesse Dio che veramente il senno
perduto avesse o nel cospetto vostro
fosse stato creduto almen quel cenno
né fosse nosco il scelerato mostro,
ché non saresti, Filottete, in Lenno
abbandonato con gran biasmo nostro,
ove s’odon le strida e i pianti grandi
ch’ognora al ciel contra quest’empio mandi.
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Quest’è quel che per noi sotto una fede
cinse la spada, oimè ! fra’ piú lodati ;
è quel cui fece de’ suoi strali erede
Ercol, dovuti agli dardáni fati,
ch’or son da lui ne le selvagge prede,
stretto dal male e da la fame, usati;
pur gli dura la vita, benché mesta,
perché lontan dal falso Itaco resta.