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CLXI

In augurio a tale che da Perugia va a Roma,
(circa il 1550)

Quest’uno umil coi sette colli altèri
e col ciel cangerai forse destino;
vanne u’ goder del sacro Cornioli) speri
ombra che non può dar faggio né pino.

Vedrai come sul Tebro ardita imperi
quella che t’avria posto al ciel vicino,
se a prenderla nel crin lento non eri,
onde n’ hai gli occhi molli e ’l viso chino.

Per non mai sempre sospirare indarno
vedi por mano a le sue chiome, intento
s’ella piú teco si raggira o scherza.

Io ch’oggi un lustro su la riva d’Arno
potei, né seppi ritenerla, sento
di penitenza ancor dentro la sferza.

CLXII


Quando Siena, il 1552, si die’a Enrico secondo, re di Francia.

L’ardita lupa, che da’ fieri artigli
de l’aquila rapace ha scosso il dorso
e tronco il duro e insopportabil morso
che l’avea posta in tanti aspri perigli,
tutta sanguigna e lieta ai cari figli
dicea rivolta: — Ecco finito il corso
de le miserie nostre, ecco il soccorso
che si fido ne dan gli aurati gigli:

guardate come dagli acuti ed empi
morsi ne toglie de l’augel nimico
che tante piaghe nel mio corpo impresse.

Ergansi dunque a questo altari e tempi
dove scritto si legga: «Il grande Enrico,
liberator de le cittadi oppresse».

(i) Il cardinale Fulvio della Cornia [Ed.].