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Non è si alpestre fèra,
ch’udendo ’l mio gran pianto,
non cangi in pia la sua orgogliosa mente.
Quanto da quel ch’io era
mutato sono! e quanto
era ’l mio meglio in quel punto dolente
morir! ché dolcemente
moriva, riguardando
negli occhi e nel bel volto,
ch’ora a dolor mi vólto,
sempre ’l suo nome e ’l mio destili chiamando.
Lasso! piú non ho io
altro ch’un dolce di morir disio.
Gli amorosetti augelli
di questo inculto loco
al tristo suon degli aspri miei lamenti,
non piú leggiadri e belli,
eantan lor dolce foco,
ma con pietose voci e mesti accenti
piangon li miei tormenti
e la mia afflitta vita;
ché non fu mai né fia
ugual pena a la mia,
qualor ripenso a l’empia dipartita.
Ma ’l ciel piú sordo fassi
quant’io piú piango intorno a questi sassi.
Dunque quest’aspro colle
e questi folti boschi
mi chiudon l’alta via del paradiso.
O desir vano e folle,
o pensier ciechi e foschi,
u’ mi guidaste voi senza ’l bel viso?
ov’è quel grato riso
ch’acqueta ’l mio martire?
e quelle chiome d’oro
e l’altro bel tesoro,
per cui mi sento ad or ad or morire?
Stolti ! non v’accorgete
che innanzi agli occhi mille morti avete?