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CXXXIV

Al medesimo nell’occasione medesima.

O fra quanti ornò mai porpora ed ostro,
degno d’impero e d’alte imprese ardente
signor, le cui bell’opre alteramente
fan gire al par de’ sette colli il nostro,

oggi sotto un bel velo il ciel n’ha móstro,
che celar le sue macchie a voi non tente
rapace artiglio e sanguinoso dente,
ch’occhio cervier non può fuggire il vostro.

Il commesso a voi gregge, o celeste Argo,
quindi l’esca sicura e queto il sonno
lieto si gode intorno al sacro lembo.

Io, se rime talor cantando spargo,
ch’aggiunger nulla a tanta gloria ponno,
l’ozio e la gioia vien dal vostro grembo.

CXXXV


A un Giovanni, del quale desidera il ritorno.

Lá dove inchina il bel Metauro il corno
al tempio sacro a l’adriatich’onde,
volgo il pensiero e dico: ivi s’asconde
quel sol che agli occhi miei solea far giorno.

Quando fia mai che de’ suoi raggi adorno
rischiari le mie notti atre e profonde
e del Tebro fiorir veggia le sponde
ed il bel colle Augusto al tuo ritorno?

Mentre ciò chieggio, il rimembrar mi giova
del suo nome gentile i primi accenti,
ed ivi qualche pace il cor ritrova;

ma il fin, che mi dice anni e non momenti,
per si lungo aspettare in me rinnova
i sospiri e le lacrime e i lamenti.