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libro decimosettimo - cap. viii 49

la commemorazione delle opere nostre e la giustificazione dalle calunnie opposteci sarebbe forse necessaria o conveniente se i supplíci che noi patiamo fussino corrispondenti a’ delitti de’ quali siamo accusati, o almanco se non li trapassassino di molto; ma che differenza è dall’una cosa all’altra! Perché noi abbiamo ardire di dire, giustissimo principe, che se i peccati di ciascuno di noi fussino piú gravi che fussino mai stati i peccati e le sceleratezze commesse da alcuna cittá verso il suo principe, che le pene, anzi l’acerbitá de’ supplíci che noi immeritamente sopportiamo, sarebbono maggiori senza proporzione di quello che avessimo meritato. Abbiamo ardire di dire che tutte le miserie tutte le crudeltá tutte le immanitá (taciamo per onore nostro delle libidini) che abbia mai, alla memoria degli uomini, sopportate alcuna cittá alcuno popolo alcuna congregazione d’abitatori, raccolte insieme tutte, siano una piccola parte di quelle che, ogni dí ogni ora ogni punto di tempo, sopportiamo noi; spogliati in uno momento di tutta la roba nostra, costretti gli uomini liberi, con tormenti con carceri private con catene messe a’ corpi di molti de’ nostri dai soldati, a provedergli del vitto continuamente, a uso non militare ma di príncipi, a provedergli di tutte quelle cose che caggiono nella cupiditá loro, a pagare ogni dí a loro nuovi danari; li quali essendo impossibile a pagare, gli costringono con minacci con ingiurie con battiture con ferite: in modo che non è alcuno di noi che non ricevesse per somma grazia, per somma felicitá, nudo, a piede, lasciate in preda tutte le sostanze, potersi salvo della persona fuggire da Milano, con condizione di perdere in perpetuo e la patria e i beni. Desolò, a tempo de’ proavi nostri, Federigo Barbarossa questa cittá, crudelissimo contro agli abitatori contro agli edifici contro alle mura: e nondimeno, che furono le miserie di quegli tempi comparate alle nostre? non solo per tollerarsi piú facilmente la crudeltá dello inimico come piú giusta che la crudeltá ingiusta dell’amico, ma eziandio perché uno dí, due dí, tre dí, saziorono l’ira e la acerbitá del vincitore, finirono i supplíci de’ vinti; noi giá perseveriamo piú di uno mese in queste