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libro decimottavo- cap. xiii 163

Genova. Ne’ quali dí ancora, certi fanti condotti dagli Adorni per mettergli in Genova furno rotti a Priacroce, luogo situato in quei monti. Questa calamitá, oltre a tante altre perdite e danni di vari legni, privò i genovesi, ridotti in ultima estremitá, totalmente di speranza di potersi piú sostenere; non ostante che ne’ medesimi dí Cesare Fregoso, accostatosi a San Piero della Arena, fusse stato costretto a ritirarsi: ma spaventandogli piú la fame che le forze degli inimici, costretti dalla ultima necessitá, mandorno a Lautrech imbasciadori a capitolare. Ritirossi Antoniotto Adorno doge nel Castelletto; e posati i tumulti, per opera massime di Filippino Doria che vi era prigione, la cittá ritornò sotto il dominio del re di Francia, il quale vi deputò governatore Teodoro da Triulzi. Ma il Capella scrive che, infestando Cesare Fregoso Genova per terra, Andrea Doria con diciassette galee aveva rinchiuso certe navi cariche di frumenti in uno porto tra Genova e Savona; e mandando i genovesi sei galee per soccorrerle, il vento spinse Andrea Doria a Savona: però le navi andorno a Genova, e i soldati uscirno fuora contro al Fregoso. Col quale mentre combattevano, il popolo genovese cominciò a chiamare Francia; e ritornando i soldati dentro a fermare il tumulto, gli inimici seguitandogli entrorno nella cittá con loro.

Accostossi dipoi Lautrech ad Alessandria, avendo nell’esercito suo la condotta di ottomila svizzeri, i quali continuamente diminuivano, diecimila fanti di Pietro Navarra e tremila guasconi, condotti di nuovo in Italia dal barone di Bierna, e tremila fanti del duca di Milano. Erano in Alessandria mille cinquecento fanti, i quali per la perdita degli alamanni che erano nel Bosco si erano molto inviliti; ma essendovi poi entrati, per i colli che erano vicini alla cittá, cinquecento fanti con Alberigo da Belgioioso, avevano ripreso animo, e difendevansi gagliardamente: ma raddoppiata la batteria da piú parti, per la venuta all’esercito delle artiglierie e delle genti de’ viniziani (benché né per terra né per mare corrispondessino al numero al quale erano obligati), e molestandola ferocemente nel tempo medesimo con le trincee e con le mine,