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libro primo - capitolo xxix 37


Primo, ma dal dispiacergli la natura insolente di Antonio, e molto piú dal rispetto grande che aveva a Muziano. Non serve ancora al discorso nostro lo esemplo di Consalvo Ferrante, al quale el re Don Ferrando non si potette chiamare ingrato, avendolo remunerato in modo che di povero cavaliere aveva stati per trentamila scudi; e se gli tolse el governo del regno, ne fu causa che per molte ragione ebbe giusto sospetto di lui per le differenzie che nella successione del regno potevano nascere tra lui e gli eredi del re Filippo; ed inoltre è certo che Consalvo governava el regno con tanta autoritá, che al re non ne restava altro che el nome regio. In modo che non si chiama ingrato quello principe che provede che chi l’ha beneficato non lo possa offendere, e di godersi lui quello che ha acquistato per mezzo suo, faccendolo con quello modo che fece el re Don Ferrando; perché Consalvo visse di poi sempre in Spagna ricco ed onoratissimo tra gli altri grandi.

Quanto agli esempli della ingratitudine di Roma, se in quella se ne truova manco che nell’altre republiche, ne è causa che ebbe el governo piú ordinato che molte altre, benché anche quella non manca degli esempli suoi; come in Camillo, lo esilio del quale si può male scusare, come in Fabio Massimo che per avere preso el vero modo di difendere Roma da Annibale, fu con tanta ignominia fatto pari al maestro de’ cavalieri, come in Cicerone oppressore della coniurazione di Catilina, come in Metello, Publio Rutilio ed in molti altri uomini clari ed innocenti che furono in vari tempi condannati o mandati in esilio. E mi maraviglio che el Discorso scusi el caso di Scipione, volendo attribuire al sospetto quello che nacque meramente da invidia e da ignoranzia; perché nel tempo suo Roma si reggeva in modo che non aveva da temere di alcuno cittadino, né la grandezza di Scipione fu spaventosa, non essendo fondata in su sètte né séguito di uomini, ma in quella autoritá che gli dava nella cittá la virtú ed e’ meriti suoi. La quale non fu mai tale né che fussi padrone delle deliberazioni publiche, né che a modo suo si creassino e’ magistrati; in modo che mai non dispiacquono agli uomini savi