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stia ne’ termini che di sopra si sono detti. L’ Anfitrione di Plauto ha piú del comico, il Ciclope d’Euripide piú del tra- gico: non è però che non sia questa e quella tragicommedia, poiché niuna di loro ha per fine di purgare il terrore e la com- passione, non potendo ella star dov’è riso, disponente gli animi a dilatarsi, non a ristringersi. Tali, per avventura, dovevano essere le favole di Rintone, di cui tra’greci Snida, Stefano nel suo libro Delle cittá e Ateneo, tra i latini Donato, commen- tator di Terenzio. E tali furono senza fallo le satire prima che la tragedia si riducesse a quella severitá, nella quale dice Ari- stotile che, dopo una lunga mutazione, si riposò. Inventore delle quali fu Pratina, al tempo d’Eschilo suo concorrente, e leggesi che di cinquanta favole che compose, trentadue ne furon sa- tiriche. Ma niuno meglio d’Orazio nella sua poetica Pistola a’ Pisoni ci ha descritta la tragicommedia con questi versi : Mox eliam agres/es satyros nudavit et asper incolumi gravitate ioctirn tentami eo quod itlecebris erat et grata novitate morandus spectator, funclusque sacris et potus et exlex. Veruni ita t isores, ita commendare dicaces conveniet satyros, ita vertere seria ludo, ne, quicumque deus, quicumque adhibebitur heros, regali conspectus in auro nuper et ostro, tnigret in obscuras humili sermone tabernas. I quali versi, trasportati in nostra favella, voglion dir questo: Ci fe’ poi anco i satiri selvaggi vedere ignudi, e tra le cose acerbe, salva la gravitá, tentò gli scherzi: perché, fornito il sacrificio e tutto giá pien di vino il veditore e sciolto, con quegli allettamenti e col piacere si dovea trattener di cose nuove. Ma si vuole onestar con tal decoro il riso di que’ satiri mordaci, cosi la gravitá mischiar col giuoco, che, qualunque tra lor si rappresenta,