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Carino. Non ti ricordi tu, quando nel tempio

de l’olimpico Giove, avendo quivi
da l’oracolo avuta
giá la risposta e stando
tu per partire, i’ mi ti feci incontro,
chiedendoti di quello
che ricercavi i segni, e tu li desti;
indi poi ti condussi
a le mie case, e quivi il tuo bambino
trovasti in culla e me ne festi il dono?
Dameta. Che vuoi tu dir per questo?
Carino. Or quel bambino,
ch’allor tu mi donasti e ch’io poi sempre
ho come figlio appresso me nudrito,
è ’1 misero garzon ch’a questi altari
vittima è destinato.
Dameta. (Oh forza del destino!)
Montano. Ancor t’infingi?
È vero tutto ciò ch’egli t’ha detto?
Dameta. Cosi morto fuss’io, com’è ben vero!
Montano. Ciò t’avverrá, s’anco nel resto menti.
E qual cagion ti mosse
a donar quello altrui, che tuo non era?
Dameta. Deh! non cercar piú innanzi,
padroni deh! non, per Dio! Bastiti questo.
Montano. Piú sete or me ne viene.
Ancor mi tieni a bada? ancor non parli?
Morto, se’ tu s’un’altra volta il chiedo.
Dameta. Perché m’avea l’oracolo predetto
che ’l trovato bambin correa periglio,
se mai tornava a le paterne case,
d’esser dal padre ucciso.
Carino. E questo è vero,
ché mi trovai presente.
Montano. Oimè, ché tutto
giá troppo è manifesto! 11 caso è chiaro:
col sogno e col destin s’accorda il fatto.